sabato 5 gennaio 2013

Konton

Konton



Il caos è un nome per ogni ordine che causa confusione nelle nostre menti.”

    - George Santayana



Noi portiamo l'ordine.

Così era scritto sui volantini “pubblicitari” che avevano come argomento la guerra sul pianeta denominato Konton, pianeta lontano anni luce. Era cominciata tantissimi anni fa e non sembrava voler finire... O forse nessuno degli schieramenti intendeva mettere la parola fine a quel massacro. Come disse un pensatore illustre e molto stimato: uno scontro è un conflitto generato da persone che si conoscono e che non si massacrano, ma combattuto da persone che non si conoscono ma si massacrano. Nessuno poteva sapere le dinamiche reali di quel conflitto. Ma tutti sostenevano la versione ufficiale: sono dei barbari, persone ignobili che devono essere civilizzati, non hanno ordine, conoscono solo il caos. Ecco il perché avevano denominato il pianeta Konton: quella parola significava “confusione, caos” in una delle lingue più parlate del pianeta. Tanto loro non potevano dire nulla al riguardo, nessuno li aveva interpellati. Che stessero lì a farsi massacrare.

Era la trentesima volta o più che Xenos guardava quel cartello ma non gli era mai venuto in mente niente di utile. Però in quell'occasione il suo cervello cominciò a scricchiolare, a macinare, a creare. Ipotesi, occasioni, qualcosa. E così accelerò il passo. Non era in ritardo, ma riteneva giusto correre perché non voleva perdere troppo tempo. Giunse a destinazione in cinque minuti. Si trattava del palazzo in cui lavorava, una modesta casa editrice. Lavorava lì da molto tempo e si trovava bene. Arrivò all'ultimo piano salendo quattro gradini alla volta e andò dal direttore.

Era più di dieci anni che lavorava per quella casa editrice senza aver mai concluso niente di plateale o importante. La noia lo stava rodendo lentamente, come un piccolo ratto. Il capo ascoltò tutto fingendo interesse e, alla fine, diede il suo assenso. Ovviamente senza sganciargli nulla, ma Xenos l'aveva previsto. Un parente aveva tirato le cuoia poco tempo prima e si trovava con un bel gruzzoletto che non intendeva sprecare in cavolate. Non si era mai dedicato a cronache, reportage o storie importanti, forse quell'improvviso cambio di notizie gli avrebbe giovato. L'idea di visitare un pianeta straniero lo stuzzicava. Il viaggio interplanetario ormai aveva perso il suo status di moda e non c'erano molte persone che si imbarcavano, complice anche il costo proibitivo. Sarebbe partito con una nave dell'esercito giorni dopo, tanto i soldati da far morire non erano mai troppo pochi. Doveva stare sempre attaccato a quell'ufficiale di cui si era dimenticato subito il nome, incaricato della sua sicurezza.

La nave gli fece una gran bell'impressione, un ambiente pulito e pacifico. Fece amicizia. Si trova sempre qualcuno con cui scambiare due chiacchiere tra soldati, semplici marinai o prostitute. Riscoprì il buonumore dopo tanto tempo. Aveva dimenticato com'era. Lo sbarco non fu particolarmente piacevole, il pianeta faceva davvero schifo. Il cielo era perennemente bluastro e scoprì che era illuminato da un unico sole giallastro. Dappertutto vi erano macerie. Poco più in là vi era anche qualche morto carbonizzato. A Xenos gli alieni fecero davvero ribrezzo, erano così diversi.

Aveva tutto l'occorrente: taccuino, penna, una piccola videocamera digitale, registratore, il suo computer, il suo diario personale e qualcosa da leggere nei momenti di noia che, sperava, sarebbero stati pochi o inesistenti. Si sistemò nel suo alloggio a riposare. Il giorno dopo decise di iniziare a osservare. Voleva raccontare la verità, voleva documentarla, era curioso. E finalmente era lì. Prima di dormire lesse qualche pagina del suo libro, un romanzo scritto in forma epistolare che parlava di un gigante che terrorizzava gli abitanti di una cittadina dall'alto del suo castello. Lo trovava rilassante. Poi si imbacuccò nelle coperte, come soleva fare sul suo pianeta. Lì l'aria era più rarefatta e fastidiosa da respirare. Inoltre la gravità era più debole e questo gli dava le vertigini. Non invidiava affatto i soldati che qui dovevano lasciarci la pelle. “Morire anni luce da casa...” meditò. Lo facciamo per il loro bene. Io ne sarei orgoglioso.” Con questo pensiero si addormentò.



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Il suo primo pensiero fu sembra una discoteca”. I “suoi” sventravano allegramente alcuni alieni usando dei cannoncini che sparavano grossi fasci luminosi multicolori, armi in dotazione da poco. Molti morivano prima di fare un solo passo, pieni di buchi fumanti. Altri, avendo perso il proprio giocattolo, contribuivano al massacro con dei lunghi coltellacci ricurvi che sfoderavano dalla cintura. Le urla sembravano non finire mai. Un alieno, Xenos pensava fosse giovane per gli standard del pianeta, con una sola lama stava smembrando un soldato che pensava di conoscere. Ammirò il suo coraggio e per un attimo gli venne in mente di fermarlo. Poi cambiò idea. Col binocolo sembrava tutto vicinissimo, ma era solo un'illusione. E poi aveva paura. Quel ragazzino venne ucciso alle spalle poco dopo. Ne vennero altri. Continuarono a sparare con le loro armi preistoriche, ne ammazzavano pochi ma vendevano cara la pelle. Xenos spostò lo sguardo verso un'altra scena. Un alieno si accingeva a fronteggiare, con un semplice coltello, un soldato del suo pianeta, rimasto disarmato. Morirono entrambi dopo pochi minuti: l'alieno riuscì a sgozzarlo dopo una zuffa sanguinosa, ma venne abbattuto alle spalle dai compagni del morto. Cadde senza un lamento. Gli venne da vomitare ma frenò l'impulso. Da un'altra parte un loro soldati spiaccicò la testa di un alieno con una pietra. Sangue sprizzò da tutte le parti. Facevano davvero schifo con quella carnagione biancastra e quel sangue rosso. Poi erano così deboli in confronto ai loro, che erano alti il doppio e avevano la pelle verde resistente, come quel metallo che gli alieni usano lavorare.

Si concesse una pausa per vomitare, poi guardò un altro po'. La giornata continuò allo stesso modo. Fu una carneficina e già il primo giorno Xenos si sentì vacillare. Non aveva mai visto uno spettacolo di tal sorta e ne fu tremendamente scosso. A letto non riuscì a dormire, continuava a rivedere quei morti. Gli parevano tutti uguali quel momento, ma forse era solo la stanchezza. Riuscì a prendere sonno con fatica.

Il giorno dopo si rimise col suo fedele binocolo e con la carta davanti a sé, deciso ad appuntare tutto quello che poteva. Vide una delle femmine degli alieni venir fatta a pezzi da un pelleverde, scorse soldati agonizzanti, uomini senza un arto o peggio, uno sfortunato era stato fatto letteralmente a pezzi e i suoi brani erano sparsi tutt'intorno. I peggiori erano quelli ancora vivi, i loro sguardi lo terrorizzavano. Ogni giorno vedeva le stesse cose e ogni giorno si sentiva roso da qualcosa. Forse stanno sbagliando, forse tutti loro stanno sbagliando. L'intero pianeta sta sbagliando. E forse loro lo sapevano, qualcuno sapeva. C'è sempre qualcuno che SA.” Passò i giorni seguenti a studiare gli indigeni. Le loro religioni (ne avevano tantissime), i loro stili di vita. Scoprì che gli alieni non erano tutti uguali, molti avevano pelli diverse: dal nero al marroncino, per arrivare ad un colorito olivastro, altri ancora avevano la pelle ramata. Anche le fisionomie erano diverse: occhi più o meno assottigliati, colore della chioma, robustezza. C'era sempre da imparare qualcosa. Aveva bisogno di sapere. Qualcosa di simile ad una coscienza lo spingeva a farlo. Era uno dei primi a comportarsi così.

Rimase lì a raccogliere materiale e fatti per il suo libro un intero anno. Dell'idea iniziale non era rimasto nulla.



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Le notti ora passavano insonni, in casa sua. Le sigarette aumentavano insieme alle bevande alcoliche. Era sempre arrabbiato con tutti. Non usciva più di casa. Era ossessionato. Non voleva dormire. Aveva paura. Paura di quello che aveva visto. Del caos vero, quello che stava nel cervello. L'unico caos che aveva visto a Konton era quello che ora gli rodeva il cervello. Era un massacro immane e inutile, voluto da chissà chi e per chissà quali scopi. La facciata era sempre la solita. Bisogna dare qualcosa alla gente. La gente voleva sapere di essere dalla parte del giusto, di essere dalla parte dell'ordine. Tutti vogliamo essere nella barca del vincitore. E inevitabilmente gli alieni sono destinati alla resa, entro pochissimo. Non c'erano dubbi. Nessuno sospettava l'imbroglio o voleva sospettarlo. Era bello stare nel proprio nido dorato a giocare a fare Dio. A massacrare milioni di alieni dando loro colpe assurde, tanto nessuno li aveva interpellati. Erano stati loro a portare lì il caos, in nome di qualcosa. La domanda ovvia era: cosa? Ma nessuno voleva guardare in faccia la realtà.

Ma come fare? Per svegliare un pianeta di idioti serviva qualcosa di potente. E tutto quello che aveva nella testa era un fuoco. Un fuoco di ricordi che ardeva senza sosta e senza ordine. Un macello indescrivibile che non riusciva a controllare. Una spirale di sangue e morti che chiedevano pietà e vendetta. Doveva loro un mucchio di cose. Ma come fare a domare tutto ciò? Come si poteva portare quella moltitudine di ricordi in una forma tangibile e controllata, ordinata? Non doveva sbagliare, anzi non poteva. E non voleva. Il giorno che aveva lasciato quel pianeta aveva giurato. Avrebbe raccontato tutto, avrebbe vuotato il sacco anche a costo di andare contro tutti. Si sentiva un eroe. Il vero eroe, quello che smascherava i potenti e liberava la gente dal giogo dell'ignoranza forzata e voluta.

Non riusciva. Quando scriveva qualcosa, qualcos'altro sfuggiva al suo controllo. Non riusciva a cogliere gli elementi perché essi venivano fuori quando non poteva scriverli o quando non era il momento. Un giorno si dedicò a scrivere su un foglietto tutto quello che gli veniva in mente. Scrisse un'intera settimana. Poi provò a dare un ordine a quelle cose e a guarnirle con considerazioni personali. Mise anche pezzi di cultura indigena, le loro lingue, i loro costumi spesso contraddittori, la loro intricatissima storia. Il loro caos culturale, perché erano come loro. Tutti brancolavano nello stesso sterco, ma lo chiamavano cioccolato. Avevano un altro sole, un'altra atmosfera, un altro corpo, un sangue di colore diverso. Erano diversi, ma in tutta quella moltitudine di differenze Xenos vide solo similitudini. Il suo libro doveva vertere su quello. Doveva far capire. Avrebbe fatto crollare il loro sistema di pensiero.

Ora si dedicava a combattere i suoi ricordi, a raffinarli. Si sentiva come un fabbro che lavorava il metallo grezzo e inutile per farlo diventare qualcosa di utile. Perché tutto nasce dal proprio contrario, perché il positivo nasce dal negativo e viceversa E perché questa grande metamorfosi universale dava il ritmo a quello che gli esseri dotati di sistema nervoso chiamano vita. Era angosciato. Aveva solo quel chiodo fisso e spesso si dimenticava di mangiare per scrivere.

Anche in procinto di consegnare il materiale ebbe dei ripensamenti all'ultimo secondo. Fu solleticato dall'idea di tornare a casa e correggere. Un'altra parte del suo cervello gli chiedeva di bruciare tutto, per avere pace. Ma lo consegnò e ne fu contento. Non avrebbe potuto sprecare tutto quel ben di dio, anche se forse non era perfetto. Ma tanto si sa, la perfezione non è di questo Mondo, e sicuramente nemmeno di Konton. Ma era bello lo stesso aver tentato e averci messo tutto. Xenos aveva buttato sudore e sangue per scrivere tutta quella roba: l'opera della sua vita. E ora tornava a casa canticchiando.



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Le vendite di Fuoco & Sangue: un occhio critico sulla guerra di Konton non lievitarono mai. Venne letto solo da poche persone perché erano tutti troppo impegnati. E poi nessuno voleva sapere quello che un piccolo scrittore voleva dire. Xenos si era aspettato qualche visita, magari anche malevola, per il suo lavoro. Ma non successe nulla e fu dimenticato. Passò il resto della sua vita in solitudine. A pensare.