lunedì 30 maggio 2016

Una Bella Luna

Una Bella Luna

Era una bella notte.
La vecchia decappottabile blu metallico sfrecciava a tutta velocità sulla strada dritta. La luna piena ovattava tutto, come un velo che rendeva tutto simile ad una fiaba classica. Tutt'intorno alla vettura il nulla, chilometri e chilometri di deserto, forse qualche cactus. Probabilmente qualche lupo stava ululando alla luna quella notte. Era tutto perfetto: il clima tiepido, la macchina aveva carburante da vendere, nessuno davanti o dietro l'auto. Sola nell'universo. E andava tutto benissimo. Il guidatore teneva la mano sinistra oltre lo sportello, godendosi il vento, i capelli corti svolazzanti. Teneva il volante solo con la destra e pareva ridere.

Aveva dei semplici jeans, una maglietta a maniche con l'immagine della morte, ai piedi anfibi non esageratamente grandi. Nonostante il posto, guidava una macchina europea, col cambio manuale. Non aveva mai avuto neanche la minima voglia di provare i giocattolini automatici americani. Sopra il cambio si vedevano le scritte luminose dell'apparecchio, in quel momento sintonizzato su Radio Odio, frequenza 66.6 Hz. Un piacevole pezzo death metal (messo a volume abbastanza alto) sembrava riempire tutti i vuoti. Il guidatore diede un'occhiata veloce al sedile del passeggero, vuoto ma evidentemente consumato. Il guidatore, il cui nome era Otivnaig, abbozzò un sorriso, pensando a chissà quale stramberia.

Altrove, Alesja si dimenava. Aveva le mani, ricoperte da guanti di pelle a mezzo dito, immobilizzate dietro la schiena da numerosi giri di nastro adesivo; stessa sorte per le gambe, dentro pantaloni attillati di pelle nera: il nastro girava intorno alle cosce, vicino alle ginocchia, e alle caviglie, sopra i pesanti anfibi da motociclista. Un ulteriore giro di nastro collegava caviglie e polsi, costringendola ad una posizione il cui nome aveva a che fare con gli ovini. Una striscia dello stesso nastro adesivo le tappava la bocca, da orecchio a orecchio. Era nastro con  colla molto forte, perciò una striscia era sufficiente allo scopo. Il "rapitore" era stato gentile a non riempirle la bocca con qualche panno.

E c'è da dire che si dimenava da parecchio, cercava di sconfiggere la colla che le sigillava le labbra o muovere gli arti, senza risultato. Non era la prima volta (anzi a lei sembrava tutto uno strano deja vù) che si trovava in quello stato, ma lei ogni volta non si rassegnava. E, mugolando, cercava di colpire le pareti strette del posto in cui si trovava, tanto angusto da essere simile ad una bara. Ad ogni movimento sentiva muoversi il piccolo anello al naso. Inoltre, nonostante il fatto che fosse buio pesto e l'aria fosse diventata pesante, era contenta di non essere stata anche bendata. Non sapeva dove si trovava, l'unica cosa che poteva aiutarla era la lieve musica che sentiva.

Aveva provato anche a sfregare la faccia contro il "pavimento", ma il bavaglio non si spostava di un millimetro, stessa cosa dicasi per i polsi, aveva solo rischiato di graffiarsi gli avambracci nudi. Poteva raggiungere con le mani la cintura e le sue tasche, ma il suo coltello le era stato portato via prima di essere stata immobilizzata. Cercando di trovare dei lati positivi, aveva deciso che poggiare di fianco su quella superficie era abbastanza comodo, anche se la posizione in sè non fosse il massimo per l'avventura che stava vivendo. Passava il tempo a cercare di maledire ad alta voce tutto quello che poteva, ma con ovvi e scarsi risultati.

Otiv diede un'occhiata all'ora, sulla radio, e decise che era ora. Non ce la faceva più, perciò si mise sulla destra e fermò la macchina sul ciglio della strada lasciando le luci accese. Era un rettilineo molto lungo e nessuno, ubriachi a parte, avrebbe rischiato di colpire la sua auto, unica fonte di luce delle vicinanze. Aprì lo sportello, lo richiuse e si mise a pisciare, fischiettando sotto la luna, poi, ridendo, si diresse verso il cofano della sua auto. Azionò il meccanismo di apertura e sollevò il grosso sportello: Alesja era ancora là, esattamente come l'aveva lasciata (a parte forse lo sguardo più incollerito e tagliente).

"Come va amore, ti sei divertita?" Disse prendendo una cosa da dietro le spalle.
"Mmphhf..." Rispose la donna, i suoi occhi feriti dalla luce improvvisa. Aveva i capelli rossi e ricci leggermente in disordine.
"Dimmi che mi ami e ti libero!"Squittì l'uomo. Dalle mani apparve un coltello, Alesja lo riconobbe: era il suo.
"Mmmph!" Disse cercando di girarsi per far vedere all'uomo il dito medio che faceva capolino dai fianchi. 

Otiv rise e si avvicinò alle gambe della donna. Con gesti misurati tagliò il nastro delle caviglie, poi quello delle cosce: il nastro volò via nel vento del deserto. Poi le prese le gambe aiutandola a uscire dal vano, pochi secondi dopo Alesja stava in piedi di fianco a lui, mugolandogli qualcosa. Otiv si beò della visione: la canottiera nera con un pentacolo, nella foga, si era spostata facendo vedere un pò della pancia; inoltre il giubbotto di pelle aperto, arrotolato ai gomiti, le era scivolato da una spalla, mostrando la sua bellissima pelle diafana. Lui le sistemò giubbotto e maglietta, poi la fece girare e armeggiò coi polsi, altro nastro volò via. Lei si girò verso di lui massaggiandosi le mani, gli tirò un calcio sugli stinchi, poi lo afferrò per le braccia, conducendolo verso uno sportello.

Ancora imbavagliata aprì la portiera e lo scaraventò sui sedili di dietro, lui stava ancora ridendo. Lei saltò sopra di lui e senza nemmeno chiudere lo sportello gli si mise sopra a cavalcioni, guardandolo malissimo, poi portò una mano guantata verso la bocca, sfilandosi il nastro lentamente: le labbra rosse carnose fecero venire un capogiro all'uomo, sul retro del bavaglio si vedeva ancora la loro forma di colore rosso; pure quello volò via nel vento. Lui notò i suoi canini. Poi lei armeggiò qualcosa in basso, visibilmente furente. Lui provò a dire qualcosa ma lei gli poggiò la mano sulla bocca, dopodichè si diedero da fare per un tempo indefinito. Solo la luna li osservava, ma si faceva gli affari suoi, occupata in qualcosa che era fuori dalla comprensione dei mortali.


Radio Odio trasmetteva uno sceneggiato radiofonico fantahorror e creava la giusta atmosfera per i due viandanti notturni. Non si guardavano nè parlavano, ma non ce ne era bisogno. Continuavano a correre lungo quell'infinita via, quasi una scalinata per un posto sito altrove, paradiso o inferno che sia. La luna era ben alta nel cielo e il paesaggio monotono non li aveva ancora sfibrati, anche se la palpebra cominciava a far sentire il suo peso. Mezz'ora dopo, o poco più, notarono un cartello con su scritto "MOTEL, 3 MILES" e decisero di aver avuto fortuna. Dieci minuti dopo videro l'insegna luminosa. Fuori era pieno di auto.

Lo sceneggiato stava per finire e Otiv spense il motore, ma lasciò la chiave nel quadro per sapere il finale. La donna non sembrava molto interessata ma nemmeno contrariata, continuava ad osservare la luna con aria sognante. Infine la storia ebbe termine e si diffuse nell'aria la voce della speaker che dava la buona notte a tutti, lui staccò la chiave. Scesero insieme dall'auto, misero insieme il tetto, chiusero gli sportelli ed entrarono mano nella mano nell'hotel, come due figure nere indefinite. Il tizio alla reception non fece domande, tutto preso com'era dal libro che stava leggendo. Ovviamente la loro stanza aveva il numero 66.

Un letto matrimoniale, tv, bagno con doccia, un tavolo, una finestra. Era tutto lì, non avevano bisogno d'altro. Alesja tirò fuori, da non si sa dove, una bottiglia contenente un denso liquido rosso e cominciò a bere avidamente mentre Otiv spostava il lenzuolo dal letto. Si stesero insieme tenendosi abbracciati e accesero la tv. Passarono il tempo a cambiare canali, insoddisfatti, poi decisero che avrebbero dormito fino a tarda mattinata. Poi l'oblio. Le lenzuola impregnate di sudore fu il premio per la loro giornata di foga. Sopra di loro la luna li osservava, ancora una volta, ma rimaneva impenetrabile.


"Amore, senti questo bel profumo di morte?"
"Si. Da quando siamo arrivati. E' una bella fortuna o sfortuna?"
"Io non ne ho idea. La cosa mi destabilizza un pò, ma non saprei proprio cosa fare."
"E' ovvio, agiamo. Fanculo il tuo stomaco."
"E' che non dovrebbe riguardarci, ma d'altronde se abbiamo iniziato questo viaggio, qualcosa dovremmo fare, no?"
"E' così, quindi smettila di brontolare o ti lascio quà."
Otiv sorrise a piena bocca.


Si diressero al bar subito dopo il tramonto. Musica black ambient permeava il locale, i due pensarono fosse Radio Odio, ancora una volta. Si diressero al bancone guardandosi in giro: il tavolo da biliardo era circondato da parecchie persone, tutti con cappelli da cowboy; almeno tre cameriere (tutte donne) servivano i tavoli avvolti da una cappa di fumo da sigaro; un uomo e una donna in cosplay (o qualcosa del genere, sembravano usciti dal medioevo) bevevano birra ad un tavolo, guardandosi intorno; altrove si giocava a poker o a dadi; un vecchio leggeva un libro voluminoso. Arrivati al bancone Otiv chiese una pinta di birra cruda e un bloody mary per la sua donna, vennero serviti subito. Portarono i bicchieri alle labbra.

Poco dopo il boccale di birra di Otiv era vuoto. Guardò Alesja e disse qualcosa. Lei poco dopo rispose con tono di voce basso, quindi si scambiarono un bacio leggero sulle labbra. Lei si alzò e uscì dal bar, dirigendosi chissà dove, mentre Otiv tirò fuori il portafoglio tirando fuori una banconota, la porse al barista e attese il resto. Perchè solo nei film non si prendeva il resto. Poi si alzò e uscì pure lui, Alesja non si vedeva già più, ma la luna era riapparsa. 
Il barista intanto si stava accingendo a lavare i bicchieri, quando notò una cosa e subito dopo fece segno ad uno degli avventori: sul bicchiere della donna si vedevano le tracce di rossetto, ma il liquido non era stato toccato


Alesja era uscita dal bar dirigendosi alla reception, aveva preso le chiavi della stanza e aveva fatto finta di prendere l'ascensore, in realtà era scesa per le scale. Voleva dare un'occhiata al piano di sotto. Dopo due corte rampe di scale notò un'unica porta. Facile una volta tanto, pensò. Saggiò silenziosamente la maniglia: era aperta. la aprì e si diresse nella stanza buia. La porta si richiuse dietro di lei con un tonfo. Alesja si girò notando che non c'era nessuna maniglia da quel lato. Dovevo immaginarlo, si disse, ma ormai era tardi. Come Otiv, era abbigliata allo stesso modo della sera che aveva passato nel bagagliaio, il coltello al suo posto. Guardandosi intorno andò in avanti, verso le tenebre.

Otiv invece era salito per le scale. Avevano deciso di dividersi per osservare bene tutto, Otiv sopra e lei sotto. Lui doveva controllare tre o quattro piani, parecchi pensava lui. Lei al massimo due, ma si sa che gli scantinati sono maleducati. Il primo piano era quello della sua stanza e l'avevano controllato per bene tutti e due. Salì al secondo, poi terzo, nulla di nulla. Infine il quarto, l'ultimo: questo aveva una porta in più rispetto agli altri. Otiv provò ad aprirla ma era chiusa a chiave, allora si guardò intorno e prese spazio, poi la sfondò con un calcio. L'ennesima stanza buia, ma si vedeva una porta, questa volta aperta. Era un ascensore e aveva un solo tasto. Otiv credette di aver visto abbastanza, così chiuse la porta e premette il pulsante. L'ascensore scese nelle tenebre.

Alesja stava camminando per un corridoio molto lungo. Camminava furtiva dentro il nero più totale, pronta a reagire al minimo rumore. Il corridoio era pieno di mobili distrutti o semplicemente molto vecchi, pieni di polvere. All'improvviso sentì un rumore provenire dal fondo e una lama di luce fendere il buio, istintivamente si nascose dietro un mobile. Dalla sua posizione riusciva però a vedere che da quel rettangolo di luce stava venendo fuori una donna. Questa donna si mosse e si accese la luce nella stanza. Merda, pensò Alesja, anche se ben nascosta. La donna aveva uno di quei completi in latex stile dominatrice, attaccati alla vita aveva ancora un frustino e delle manette. Camminava sola, verso l'apertura da cui Alesja era venuta. E lei capì.

Il viaggio in ascensore durò davvero poco e questo permise ad Otiv di capire che si trovava ad un piano interrato. La porta si aprì cigolando su un'ennesima stanza vuota e buia, ma più piccola della precedente. Su un muro vi era un cancello in ferro battuto, davanti al quale stava qualcosa di simile ad un sipario rosso bordeaux. Otiv aprì il cancello (che non emise un solo cigolio) e scostò il panno. Si trovò quindi in una stanza grande almeno quanto una qualsiasi aula magna universitaria, gremita di persone, piena di qualunque tipo di essere. Vide nani, elfi, orchi e anche demone orientale, tutti vestiti nelle più maniere imposte dalla moda di quei giorni. Nessuno si accorse di lui per il momento, ma lui notò il palco. E lui capì.

La mano sinistra guantata di Alesja si chiuse in un lampo intorno alla bocca della donna, appena la superò non notandola. Con l'altra l'afferro per il busto trascinandola verso il suo nascondiglio. La donna non capì nulla e nemmeno tentò di protestare, gli occhi sgranati per la paura. Alesja le disse qualcosa riguardo al non gridare e al dare delle risposte, la donna fece si con la testa. Le liberò la bocca e lei parlò lentamente e con un tono di voce basso. Poi Alesja si mise a pensare, decise di nutrirsi un pò e affondò i canini appuntiti nella gola della donna, che aveva capito tutto dall'inizio. L'unico problema era che, con la luce aperta, non si era accorta che la porta di prima si era riaperta facendo uscire altri due esseri, due goblin armati fino ai denti. Fece appena in tempo a prosciugarla che si trovò un coltello seghettato davanti agli occhi.

Sul palco stava iniziando il rito. Sei umani, tre uomini e tre donne, strafatti e barcollanti vennero fatti inginocchiare sulle sei postazioni contrassegnate da un pentacolo, disegnato sulla postazione sopraelevata. Un sacerdote incappucciato salmodiava parole incomprensibili mentre da dietro le quinte appariva un uomo con una lunga coda di cavallo. Aveva una lunga spada ricurva in mano, il boia pensò Otiv. Li avrebbe decapitati e il loro sangue sarebbe scivolato sulle scanalature scavate sul palco. Seguendo quella pista, il sangue sarebbe entrato in un calderone posto sotto il pulpito. Lo avrebbero fatto bollire evocando chissà cosa. O magari faranno di peggio, chi cazzo mi ha fatto finire quì? pensò. Ma capì di aver sbagliato quando si trovò un cucciolo di troll arrabbiato davanti agli occhi.

I due goblin la fecero alzare. Uno le teneva il coltello vicino alla gola, l'altro la prese per gli avambracci, incrociandoglieli dietro la schiena, Alesja ebbe un brivido sentendo sulla propria pelle quella mano gelida. Poco dopo sentì il clack delle manette, poi lo stesso goblin prese dalla cintura un bavaglio a pallina di colore rosa. Apre Wampyr, disse (o qualcosa del genere). Lei capì: aprì la bocca da cui sporgevano i canini e accettò la piccola sfera. Infine chiusero la cinghia (molto strettamente, lei sussultò) dietro la sua testa, tra i suoi capelli color del fuoco. Infine le misero una benda, di quelle che si usano per dormire in aereo. L'altro essere posò il coltello e la prese dai gomiti, l'altro lo imitò. Insieme la fecero camminare. Tanto per cambiare, pensò mentre sentiva dolore alla mandibola e alle guance. Dopo aver camminato qualche minuto fissarono le sue manette ad una sbarra e tolsero la benda. Lei mugolò qualcosa dalla sorpresa.

Otiv alzò le braccia e fece un sorriso sornione, da idiota. Si beccò uno, due, tre pugni sulle costole, poi venne raccolto e trascinato in una stanza con delle sbarre, una prigione probabilmente. Si aspettavano bontemponi, pensò. Il pavimento era pieno di teschi e ossa, umane e non, segno che non era la prima volta che succedeva tutto questo. Lo buttarono per terra e lui fece finta di svenire, chiusero la porta. Lui rise vedendo la finestra che dava all'esterno, la luna si vedeva perfettamente, questo lo calmò. Dopo una decina di minuti sentì altri passi e si sedette poggiando la schiena al muro. Vide arrivare due goblin, stavano scortando una donna bendata, con la bocca chiusa da una pallina, le mani dietro la schiena. Lui la riconobbe subito, nonostante la sorpresa.

Si trovarono insieme in cella, lui l'abbracciò e le disse di stare tranquilla, il momento stava arrivando. Le disse ridendo che quella scena l'aveva già vista chissà dove, chissà quando. Lei mugolò ogni volta e sbavò, cercando di liberarsi. Era ben rifocillata di sangue, ma non poteva spezzare quelle manette d'argento. Lui capì e le disse di aspettare, Poco dopo iniziò la trasformazione: crebbe il pelo, si allungò il muso, i vestiti si fecero a pezzi, la schiena si incurvò ancora. Lei, quasi fosse la prima volta, mugolò più forte, preda della paura, ma lui aveva mantenuto il suo sguardo. Lei si girò e lui spaccò le manette con un'artigliata, la sua pelle da lupo bruciò per un attimo e ululò di dolore. Poi si schiantò sulle sbarre, impotente. Lei lo accarezzò sul muso e rise, o quantomeno ci provò a causa del bavaglio, poi prese il suo coltello dalla cintura (i goblin non sono mai stati famosi per l'intelligenza). 

Con la punta fece saltare in pochissimo tempo la serratura della prigione. Il lupo si girò verso di lei, il membro eretto. Lei si tolse il bavaglio sporco di saliva e lo baciò, poi lui scomparve. Lei rimase lì, in attesa che tutto finisse.

Ad ogni urlo o ululato che sentiva le veniva da sghignazzare.

Dedicato a Lilith