mercoledì 11 febbraio 2015

Vettore

Vettore

Colonna Sonora: Opeth – Ghost Reveries (Full Album)



Guardami negli occhi. Una battaglia di spade è prima di tutto una battaglia di sguardi.”

- Massima di uno spadaccino



Neve, grandine e pioggia. Tutto insieme. Era una brutta notte, ma la luna era piena. La luna è sempre piena quando deve esserlo o quando qualcosa sta per succedere. E' una cosa che si può chiedere a chiunque, basta provare. Uomini lupi, sacrifici in notti sacre, festività musicali tenebrose e raduni di esseri oscuri. Tutti con la luna piena. E questo lo sapeva il viandante in nero, lo sapeva bene. Camminava leggermente curvo in avanti, come una freccia che andava verso un obiettivo lontano. Coperto completamente da un mantello marrone completamente zuppo di pioggia e sporco di escrementi di uccelli e altri animali. Dal fianco sinistro sporgeva qualcosa di oblungo, come se portasse qualcosa di lungo appeso alla cintura. L'unica parte del corpo non coperta dal mantello era il volto: un osservatore auto poteva vedere che l'occhio sinistro era coperto da una benda (allo stesso modo di alcuni corsari, avrebbe detto qualcuno), anche se, ad un primo sguardo, non si vedeva alcuna cicatrice. Barba folta e incolta gli incorniciava i lineamenti.

Un esperto di fisiognomica avrebbe detto che i suoi lineamenti, e soprattutto il grugno schifato, erano tipici di persone dure e facili alla collera. Ad un secondo esame, vedendo magari che il viandante scopriva spesso i denti, avrebbe detto che era una persona animalesca o una che teneva a stento a freno i propri istinti violenti. Probabilmente aveva ragione, probabilmente no. Del resto chiunque decida di voler capire tutto di una persona solo guardandola in faccia non è molto acuta. E' per questo motivo che le leggende sono piene di eroi belli che rovinavano ancora di più i volti, già deturpati, degli antagonisti mostruosi. Leggende appunto. La vita vera non è così, allo stesso modo per cui non esistono le persone cattive (e così quelle buone). Certo era che probabilmente lo straniero era arrabbiato. Per il tempo, per l'ansia crescente e per la preoccupazione per le condizioni del suo equipaggiamento.

Prevedeva ancora una lunga notte di cammino irta di nausea e bisogno di orinare e defecare, cose per nulla facili dato il suo vestiario. Il bosco in cui stava camminando sembrava deserto ma lui sapeva che era pieno di vita. Probabilmente tutti si tenevano alla larga a causa dell'aura estremamente negativa e forse ignota che emanava il viandante. Del resto se lo avessero attaccato molto probabilmente se ne sarebbero pentiti. Sia che si trattasse di animali o esseri intelligenti con le orecchie a punta. SI trattava anche di odio, un odio capriccioso verso le cose, come diceva lui, “troppo naturali”. Come un bosco. Se era vero che l'uomo era nato per vivere nella natura, allora lui NON lo era. I suoi luoghi preferiti erano estremamente umani, come campi di battaglia o quartieri di piacere. E ora si trovava a camminare in mezzo al nulla, con le condizioni atmosferiche critiche e una fortissima voglia di uccidere qualcosa per l'irritazione.

Il tempo, ovviamente, non accennava affatto a migliorare o a calmarsi. Ma questo lui lo sapeva, c'era abituato. Non era la prima volta che si ritrovava a fare qualcosa di importante con tutto il dannato universo a cospirargli contro. Il viandante però andava avanti lo stesso. Più il mondo gli andava addosso più lui, caparbiamente, opponeva un netto rifiuto. Camminava sempre controvento. E questo lo faceva arrabbiare, anche se di fatto era una sua scelta. E intanto il paesaggio cambiava: gli alberi lasciavano posto ad antiche rovine coperte d'edera, poi a città in rovina. Lentamente le montagne, che prima coprivano tutto l'orizzonte come le mura di una fortezza molto estesa, cominciavano a sparire. Un breve tratto di collina e poi irrompeva con violenza la nuda pianura. Brulla, coperta di sterpaglie e con qualche cadavere scheletrico nel mezzo. Il viandante sapeva che era vicino.

Con lo sguardo fisso davanti a se allungava il passo. L'eccitazione e la frenesia erano forti almeno quanto le precipitazioni nella sua testa. E arrivavano i primi rumori, odori e visioni. Dardi fiammeggianti che cadevano dal cielo, esplosioni, odore di zolfo e sangue. Grigio ovunque, dalle armature alle armi che si vedevano in lontananza. Macchine d'assedio e asce. Il tutto, anche stranamente i proiettili infuocati, sotto la pioggia mista a neve. Arrivando vicino la calca appariva lentamente. Esseri con la pelle verde e corpulenti, femmine snelle vestiti di verde, nanetti barbuti ricoperti di metallo lucente, guerrieri con ali sull'elmo, assassini ricoperti di nero e figure longilinee che impugnavano bastoni nodosi. Fulmini, saette, ghiaccio. E morte, tanta morte. E odio, lucente tanto negli occhi degli sconfitti quanto in quelli dei temporanei vincitori. Tutto questo, e molto altro, appariva davanti al viandante.

La tensione scompariva lentamente, i nervi si rilassavano e il viso si distendeva, il respiro tornava regolare. Girando la testa per osservare quante più persone possibili diminuiva il passo. Ormai era arrivato e non aveva più fretta. Un barbaro nerboruto e un demone cornuto si combattevano mentre una folata di vento gli spostava il cappuccio rivelando la sua intera testa. I capelli erano tenuti alla foggia orientale, con un codino corto che stava sulla sommità del capo. I capelli, seppur pettinati alla buona, rivelavano alcune ciocche fuori posto. La fronte era cinta da una fascia nera che teneva in su i capelli, utile per evitare che il sudore scivolasse sugli occhi. Lentamente spostava una mano, poi tutto il corpo. Niente più mantello. Il viandante si presentava con una tipica armatura delle terre del sole nascente, tutta di colore nero, che lo ricopriva interamente (solo la testa era scoperta). Al fianco si incrociavano le due spade ricurve simbolo della sua casta: quella lunga e quella corta.

Al collo portava una sciarpa, anch'essa nera, messa li probabilmente per problemi relativi alla bassa temperatura. Il vento gli sferzava addosso facendo cigolare lentamente la sua armatura. La sua mano sinistra sull'impugnatura della spada lunga, pronto a fendere qualunque cosa gli si trovasse davanti con una tecnica molto in voga nel suo lontano paese. Un piccolo essere, nella foga della battaglia (senza capire da che parte stava o stavano tutti gli altri), correva verso di lui brandendo una mazza sporca. E arrivava la sua risposta: un breve sibilo di metallo simile ad un piccolo lampo, un urlo gutturale e una testa che volava. Tutto questo senza smettere di camminare. E la sua spada era nel fodero. Il ghigno diventava sorriso mentre avanzava nella calca. Ormai nessuno sapeva più per cosa si combatteva, sempre che questo qualcosa esistesse.

Gli avevano detto che lo avrebbe trovato senza particolari difficoltà. Che la sua presenza lo avrebbe guidato. Tutto vero, eccolo li. Un guerriero vestito di bianco con una piuma nel cappello, cappa sulla spalla sinistra e con una leggera armatura di cuoio che gli copriva il petto. Lo aspettava con le sue due spade sfoderate, uno stocco leggero di acciaio elfico e una daga a lama triangolare. Era già in posa. Il viandante intanto metteva la mano destra sull'impugnatura della spada lunga ora correndo in avanti. Un sibilo, poi un clangore di acciaio: prima nota di una musica nervosa e irregolare, arrangiata da due persone la cui unica cosa in comune era l'estremo odio per l'altro. Non c'erano parole o saluti o convenevoli. Solo le armi, non c'era davvero bisogno di altro. Il bianco aveva parato il suo attacco con la lama lunga e si preparava a contrattaccare con la daga.

Il viandante si difendeva. Teneva la lama lunga tenuta a due mani. Sulla lama si potevano intravedere rune naniche. Poi di nuovo si lanciavano all'attacco con affondi e fendenti. Il metallo ballava e cantava insieme, le scintille cadevano dappertutto incendiando i loro visi distorti dal sudore e dalla fatica. Poi le braccia cominciavano a tentennare e i primi graffi cominciavano ad apparire sui duellanti: sulle guance, sulle braccia o sulle gambe. Errori di distrazione o fatica, nulla di preoccupante. Il bianco cercava un gioco di polso e aveva un ottimo movimento di gambe, il nero era ben saldo e tendeva ad effettuare movimenti molto ampi con la propria lama ricurva. Di nuovo le lame si incrociavano fermandosi e stridendo. E, come un serpente, si muoveva la daga. Al nero non era sfuggito e la sua risposta, sotto forma di calcio al petto, scaraventava il bianco all'indietro con la daga che aveva sferzato solo il primo strato di pelle.

Il nero intanto aveva appoggiato la mano sinistra sulla spada corta, sfoderandola.

Si erano messi in posizione, come due divinità guerriere dei tempi antichi, aspettando e pregustando il momento buono per finire quella lunga storia. Per sempre. Un altro assalto: le loro lame saettavano e serpeggiavano, ora toccandosi, ora evitandosi. Occhi mortali non potevano seguire i loro movimenti. Si graffiavano, zampilli di sangue e sudore uscivano insieme. L'armatura del nero era strisciata in diversi punti e il bianco sanguinava da piccoli tagli su tutta la superficie del corpo. E poi un baluginio di occhi: entrambi avevano visto qualcosa. Ed entrambi, nello stesso medesimo istante, conficcarono la propria arma, ognuno nella pancia dell'altro. Le lame corte erano a terra. Il leggero stocco aveva trovato una strada attraverso l'armatura rovinata e la lama ricurva non aveva trovato troppe difficoltà a forare il cuoio. Entrambe le punte uscivano dalle schiene. Era una situazione irreale.

Il nero sgranò gli occhi come un felino e sputò sangue sulla faccia dell'altro.

NO!” urlò con quanto più fiato aveva in corpo.

Il bianco aveva lo sguardo un po' assente ma teneva duro. Ogni tanto rigirava la lama nelle viscere del suo nemico, ma quest'ultimo, con un ghigno demoniaco e storto in volto, gli trafiggeva l'anima con lo sguardo. Rivoli di sangue gli uscivano dalle labbra contratte.

Il viso del bianco, davanti a quel demone in forma umana, rattrappì di colpo e non riuscì a sostenere ancora quegli occhi sgranati. Il nero urlò di nuovo

NO!”

ed entrambi si accasciarono per terra come morti. Ma il nero era vivo. Si alzò strappandosi il ferro inanimato dalla pancia, liberando anche il proprio. Si mise le lame nei foderi senza degnare il morto di una sola parola od occhiata. Zoppicando riprese la via da dove era venuto.

Sembrava tutto finito. Quel duello in mezzo ai colpi di catapulta e con persone che si uccidevano tutto intorno era terminato. Avevano scelto quel luogo per non incombere in beghe politiche o sociali. Nessuno avrebbe badato all'ennesimo morto dell'ennesimo conflitto scoppiato per qualche motivo che nessuno ormai ricordava. Avevano espletato il loro diritto di violenza nel teatro massimo della carne e del sangue e tutto era andato bene. Tutto questo pensava il nero arrancando via dalla battaglia. Nessuno gli correva addosso, come nella foresta poco prima. Forse era la sua aura. O forse il forte puzzo di sudore, sangue e qualcos'altro. E intanto, come ogni volta, la pioggia e la neve avevano smesso di cadere. Andava sempre a finire così. L'universo rideva di lui ma a lui non importava. Si preoccupava di sputare sangue. Camminando aveva deciso, soppesando tutte le alternative, che una volta a casa, dopo una bella dormita, poteva pure morire.



Tutti moriremo prima o poi!

Però...

Il Samurai non muore!

Se ha deciso di non morire...

Allora non morirà mai!

Però...

Quando ha deciso di morire...

Allora può farlo in qualunque istante!”

    - Hijikata Toshizo (?)