sabato 8 novembre 2014

Strisciare

E' una fanfiction su League of Legends, se non conoscete il gioco potreste avere dei problemi a capire.

Strisciare



''Essere vivi vuol dire vedere morire chi ti sta intorno.''

    - Proverbio Millenario

Con la spada brandita a due mani mi getto sul mio antico nemico, un energumeno con un'armatura a spuntoni e un'ascia enorme. Mi accoglie con un sorriso, il suo volto giovanile si illumina sotto il sole del mattino. Brandisce la sua arma con una sola mano e possiede una precisione millimetrica. L'ho visto recidere di netto le giugulari di uno yordle in meno di un secondo e con quell'arma gigantesca. Un tempo rabbrividivo al pensiero di cosa avrebbe potuto fare a me. Ora è solo routine. Combattiamo per ordine degli evocatori e lo facciamo per sport. Come moderni gladiatori (il mio amico Xin riderebbe per questa metafora). La rivalità c'è, l'odio anche. Ma è un odio che oserei definire fraterno. Comunichiamo con l'acciaio da così tanto tempo... Il clangore delle due lame si sente da chilometri, iniziamo la nostra danza mortale. Ci tocchiamo in più punti ma le armature deviano i colpi, nessuno riesce a colpire un punto scoperto. Poi sento nell'aria qualcosa che non va.

Come una sensazione di disagio, come se stesse per piovere e lo sentissi dal dolore che provi alle ossa. Alzo gli occhi e lo vedo. E' lui! Spingo Darius indietro e corro verso la mia torre più vicina, giusto un attimo prima che un guerriero con finimenti dorati cadesse sul campo di battaglia come una meteora. Pietre volano via e insieme, il rakkor e il noxiano, mi inseguono. Continuo a correre maledicendo tutto e, d'istinto, curvo alla mia destra schivando un giavellotto che probabilmente mi avrebbe trafitto da parte a parte. Dall'altra parte, in mio soccorso, arriva un centauro spettrale, armato di lancia, ne scaraventa uno all'indietro e comincia a duellare con l'altro, mi unisco alla scaramuccia. Poi tutto si affolla, vedo lo sceriffo di Piltover che mi punta il fucile addosso prendendo la mira, il laser punta sul mio petto. Subito dopo davanti a me appare un muro di vento che in un attimo disperde il proiettile: Yasuo si getta sulla donna in un turbinio di spade e vento. Poi mi giro e vedo la mia vecchia compagna.

Capelli rossi al vento, pugnali nelle mani, la cicatrice sull'occhio, mi guarda e ride. Si lecca le labbra. Mi getto su di lei urlando come preso da un incantesimo, lei balla con me senza dire nulla. Sento calore ovunque. Ogni volta è come la prima volta. Incrociamo le lame e mi specchio nei suoi occhi. Vedo un vecchio coi capelli bianchi frastagliati, una cicatrice sull'occhio destro, la barba lunga incolta. Un'espressione abbattuta sul viso. NO, non è il mio viso quello.

Mi sveglio di soprassalto. E' notte fonda, piove e c'è vento. La bottiglia di liquore di Bilgewater mezza vuota è sul comodino e mi ricorda che in testa c'è il casino più totale. Non ricordo nulla della sera prima e nemmeno mi interessa. Mi appresto a finirla e mi accorgo di qualche dolore al petto. Non ci bado, mi alzo. Sul muro vedo il manifesto del concerto dei Pentakill. La carnagione pallida di Sona mi ricorda che nemmeno la sua bellezza ha potuto contro la morte delle Isole Ombra, di Olaf era rimasto solo uno scheletro urlante. Erano cinque morti a dare spettacolo. E che spettacolo. Una festa di urla, spintoni e morte. Una festa che odio ma l'unica cosa che posso fare per avere il mio oblio quotidiano, spogliarelliste e la migliore birra del Freljord in circolazione, distillata dal figlio del vecchio Gragas. E' morto di problemi al fegato, cosa che toccherà anche a me.

Mi alzo dal letto e mi guardo allo specchio. Il sogno aveva ragione, sono diventato un vecchio dal volto scavato. La cicatrice è l'unico ricordo che mi rimane di lei insieme alla foto che sta sopra al camino, giovane e bella. Il mio ultimo ricordo di lei, qual'è? Ci penso.

L'avevo trovata riversa sul letto. Le ginocchia sotto al petto, le mani lungo i fianchi. Dall'orifizio era uscita una quantità industriale di sangue ed era aperto in modo innaturale, la gola tagliata da orecchio ad orecchio in un nuovo sorriso eterno. Le avevano ficcato uno straccio nella bocca per non farla gridare, forse. E avevano giocato prima di completare il lavoro. AI piedi del letto Talon giaceva in una pozza di sangue con gli arti amputati. Le prime vittime del nuovo sistema globale creato dalle stesse persone che NOI avevamo messo al potere. Ricordo che tornai a casa piangendo e davanti allo specchio impugnare il coltello e sfregiarmi, per dimenticare. Per fare in modo che l'ultimo suo ricordo fosse la sua cicatrice, ma su di me. Non dormii per giorni e giorni.

Fuori dalla mia porta il giornale mi aspettava. Le solite notizie. Avevano trovato Jax morto in una catapecchia dei bassifondi e il vecchio monaco cieco diventare il capo regione del distretto che una volta era chiamato Demacia. Un tempo una notizia del genere mi avrebbe fatto rompere un paio di sedie, ma sono un uomo morto dentro e le mie lacrime sono già scese. Comunque che assurdità, nessuno può uccidere Jax. Morirò pensando a che faccia possa avere. Nessuno lo saprà mai. Guardando il calendario scopro che oggi è l'anniversario della fine della Lega e che in città ci sarebbero stati grandi eventi. Quanto tempo è passato? Le prime a morire furono Morgana e Kayle, trovate morte nelle loro case, non avevano più fatto ritorno nel loro mondo natio. Dovettero morirne altri perché capissimo cosa stava succedendo. Un altro segno fu la dipartita dei Voidborn, un giorno ci svegliammo e non c'erano più.

Nessuno di noi riusciva a capire. I due fratelli Nasus e Renekton scomparvero nel deserto di Shurima, l'isola di Ionia venne sommersa dalle onde. Una serie di catastrofi si abbatté su di noi. Ognuno di noi riuscì a chiudere il proprio conto in sospeso e ci assottigliammo. Tutto da noi. Poi l'annuncio della caduta di Noxus, accolta con gioia. Così tutto d'un tratto. Nessuno ci credeva e qualcuno gridava al miracolo. Poi successe lo stesso a Demacia, Zaun e così via. Gli Yordle si estinsero. Avvenne tutto nell'arco di un anno. La nuova potenza di Valoran Unificata nacque così. E al potere c'erano quelli che un tempo erano i nostri migliori amici, evocatori ed evocatrici. Probabilmente stufi della Lega. Avevano voluto dare uno scossone alle cose e, con tutto il potere che avevano, c'erano anche riusciti. Avevano creato una nuova società utopica in cui tutto era sotto controllo.

Noi eravamo obsoleti, relitti di un epoca gloriosa ma con lo stesso di un sogno. Ci ritirammo ad una vita di gozzoviglie e noia, di sesso e ricchezze. Senza sapere che ci stavamo spegnendo. Poi ci diedero una mano loro, giusto per dare uno scossone alle cose. Molti si nascosero, io no. Che venissero pure. Passavo, e passo tutt'ora, le mie giornate a dormire fino a tardi e ad ubriacarmi. Perdendo uno scopo avevo perso tutto, come molti. Ma a differenza di molti altri non scelsi il suicidio. Ero per un'autodistruzione più lenta, da codardo.

La mia spada sta sul suo sostegno. Rotta in più punti e sistemata alla bell'e meglio con delle catene sottili. Spada spezzata, spirito spezzato direbbe il Reietto. Anche se quando lo disse si riferiva ad un altra persona. Un'altra persona che ormai è solo un mucchietto d'ossa da qualche parte, non me l'ha mai voluto dire cosa fosse successo. Ora sono anche io un reietto che aspetta la morte. Un morto vivente che si agita nel groviglio umano armato di bottiglia e puttane. E guercio. Una cicatrice per un soldato è una medaglia, vero. Ma non vedo soldati da tanto di quel tempo che ormai ho dimenticato cosa sono. E chi sono. La potenza di Demacia dicevano. Ora un vecchio la cui unica soddisfazione è una schiena dritta. Mi metto l'armatura addosso, come i vecchi tempi. Oggi voglio sentirmi giovane, nonostante quell'affare pesi quanto il fottuto Barone Nashor. La spada sulla schiena, una sistemata qua e la e sono pronto.

Strade deserte mi accolgono. Morti di fame, senzatetto e ladri affollano le strade, ripiene di guardie Hextech e schermi. Un lupo mannaro rovista in un cassonetto dell'immondizia, il suo pelo è diventato bianco come la neve. Mi guarda un attimo e se ne va. Addio vecchio mio. Continuo verso il centro. Qualcuno mi guarda male, in molti non sanno nemmeno chi sia, bardato in quel modo. Qualche morto sulle strade. Tempo addietro era chiamata Piltover, ora è un deserto umano. I graffiti della Mina Vagante sono ancora visibili, unico memento della sua vita. Ad un angolo di strada trovo qualcuno che riconosco. La sua espressione è inconfondibile nonostante il tempo trascorso. La sua barba è incolta e, come la mia, è di un colore candido e pulito, contrastante col luogo. Un rivolo di sangue esce da un angolo delle sue labbra, le mani sul grembo. Aveva tentato di rimettersi dentro le budella. Non so perché ma lo fanno tutti. Lo guardo con un'espressione stanca. In questo mondo nuovo e marcio non abbiamo più amici, solo i nemici vengono a darci l'estremo saluto. Dormi in pace amico mio, non ho mai smesso di odiarti. Ma lui non risponde, passo oltre.

Fuochi d'artificio e persone mi accolgono nella Città Nuova. Evelynn passa tra la folla cercando clienti. Passo dalla bancarella di Graves di tiro al bersaglio. Non ha mai cambiato faccia da quando aveva bucherellato Twisted Fate, aveva solo preso a fumare più sigari. Era ingrassato talmente tanto che non lo si vedeva in piedi da anni. Gli passo davanti e l'occhiata che mi degna è la stessa che io darei ad un albero. Sarebbe morto solo, nella stessa maniera in cui aveva vissuto. Vivi e lascia morire. Bambini urlano e corrono intorno ad un omone coi baffi. E' forse l'unico di noi rimasto uguale. Stesso fisico scultoreo, stessa pelata. Aveva aperto un orfanotrofio ed è l'unica persona al mondo che non si merita la vita che ha. Lo saluto con un cenno del capo, mi risponde con un sorriso. ''Passa da me domani, sforniamo il pane.'' Gli dico di si come sempre. E come sempre, io e lui, sappiamo che non andrò. Entro in una bettola e ordino da bere. Ezreal mi serve subito, poi mi giro e vedo Evelynn che mi fa segno di andare su. E va bene, per oggi hai vinto tu. Salgo le scale.

La trovo ammanettata al letto, una pallina di lattice tra i denti e un'espressione da ''Allora? Ci diamo da fare?'' Le dico che non sono quel tipo e si libera dei giocattoli. Mi annullo nel vuoto cosmico per un'oretta o due, passiamo il tempo a parlare dei tempi passati con una freddezza che mi faceva sentire come marmo. La nostra era un'intimità fittizia. C'eravamo uniti per mera chimica, ne sentivamo il bisogno e via. Le dico che ci vedremo ancora e che la chiacchierata mi è piaciuta. Me ne vado sapendo che probabilmente è l'ultima volta che la vedo. Quelle come lei non durano mai molto e chissà come mai se la cavava ancora. Fuori c'è lo spettacolo di burattini di Annie. O almeno così' si faceva chiamare, la vera Annie era stata trovata fatta a pezzi insieme al suo orso molti anni prima. Faccio finta di divertirmi e mi siedo al tavolo dove sta il Reietto. Lui è una vera fogna. Già quando la Lega era attiva girava per la Landa con un contenitore pieno di sostanze alcoliche ogni volta diverse. E quando gliene chiedevano un po' rispondeva che era latte. Alistar la prima volta non l'aveva presa bene.

Ora, esattamente come me, passava le giornate a non fare niente, a trascinarsi nella sua inutile esistenza. Anche la sua barba era lunga ma aveva qualche traccia di nero. Vestiva ancora di blu e la sua spada era in condizioni immacolate. Forse, tenendone cura, pensava che avrebbe risollevato la sua vita. Nessuno gliel'aveva vista fuori dal fodero da molto tempo, comunque. Non scambiammo parole e ci gustammo lo spettacolo per qualche tempo. Ci alziamo e andiamo in strada, il vento scuote forte le case, fa freddo. Lui si chiude nel mantello. Noto che non ha più il suo flauto. Lui abita vicino a me e non era la prima volta che tornavamo insieme a casa. Poi un bagliore sinistro, del metallo, davanti a noi. Una distesa di nero chiudeva la strada. Non riuscivamo a vedere niente nella penombra. Lui chiude gli occhi e sospira. Il nostro turno finalmente. Li vedo avanzare, lui si mette la spada sul fianco sinistro come un tempo; io prendo la mia soppesandola con la sinistra. Mi giro, chiudo l'occhio e vedo uno spadaccino giovane, con gli occhi brillanti e un'aria di sfida, pronto a sguainare la sua lunga lama. Poi riapro l'occhio e vedo un vecchio che si regge a malapena in piedi.

Le mani mi tremano e mi viene da piangere. Non so se per gioia o per delusione e tristezza. Non riesco più a vivere così eppure non sono pronto ad andarmene. La voglia di trovare un senso alla mia vita è opprimente. Ma sento anche una gran voglia di farla finita. Nella massa nera rivedo la mia vecchia rivale e compagna, nelle sue forme sinuose e sorriso glaciale. Rivedo un omone con una lancia gigantesca vestito di pelle di drago, vedo mia sorella e tanti altri. Vedo tutto come se fosse giorno, la solita scaramuccia nell'anfratto del Drago. Rivedo i lividi, le serate passate in angoscia per una sconfitta opprimente, i piccoli minion, la gioia di un aiuto nella fase di difficoltà, le morti passeggere nella Landa degli Evocatori, i duelli sul ponte innevato nel Freljord, i golem, i lupi, le armi da comprare, gli inibitori rotti e quando sentivi il cuore in gola cercando di fare a pezzi un nexus, il fiume e infine, sfolgorante nel sole del mattino, la mia patria, la mia famiglia, la mia vita. Quella che era prima che gli evocatori, grazie a NOI, prendessero in mano tutto. Gli imperi sorgono e cadono, ma il male è eterno. Diceva qualcuno. Io sostituirei la parola male con la parola potere. Non è mai cambiato niente. Erano sempre loro a tenere il coltello dalla parte del manico, ora è solo percepibile sulla pelle.

Per un attimo la scena torna normale, nel buio della notte, la folla urlante davanti a noi. I nostri aguzzini, perché ci avete messo così tanto? Vi ho aspettato come ho aspettato l'amore o la vittoria. Yasuo rimane impassibile, sicuramente sarebbe morto di li a poco per lo stesso male che ha ucciso il vecchio panzone distillatore di birra. Poi la scena torna come deve essere, col sole scintillante, la mia spada non è arrugginita, ma splendente, la mia armatura non pesa e non ho la barba. Sento di nuovo la forza di Demacia in me. In un attimo Yasuo sfodera la spada e lancia uno dei suoi tornadi, io mi getto sul nemico urlando e piangendo.

''ROMPETE LE LORO RIGHE!''

domenica 27 aprile 2014

Redenzione

Redenzione

Compito dell'immaginazione è la redenzione della realtà.”

    - Nicolas Gomez Davila





Il letto gli stava stretto, ci viveva ormai da troppo tempo, era stanco, ma forse sarebbe stato accontentato. Chiese la pace dei sensi nonostante fosse furioso con tutto e tutti. Perché lui si e altri no? Ebbe la pace finalmente, presto sarebbe finito tutto.





La battaglia incombeva. Come se nulla fosse. Brandendo la mia spada ricurva a due mani mi avvicinai all'oggetto del mio odio. Sollevai la lunga lama sopra la testa, pronto a caricare il cosiddetto taglio del monaco, chiamato così perché seguiva una traiettoria diagonale dal basso perso l'alto che avrebbe tagliato seguendo una particolare piega del vestito di un monaco. Una tecnica della mia scuola di spada. Pochi secondi e tutto sarebbe finito. Pochi secondi. Inspirai, chiusi gli occhi. Poi li riaprii calando la lama. Il legno cedette. Ora è solo questione di tempo.

***

La cattedrale diroccata è un posto pieno di sbandati, un luogo adatto a me. Ci sono arrivato pochi giorni fa e, nonostante non parli praticamente con nessuno e stia da solo tutto il tempo, mi sento assolutamente a casa. C'è gente venuta da ogni parte del regno e del mondo, tutti in questo posto per il medesimo scopo (o forse perché nessuno di queste persone, me compreso, ne ha veramente uno nella vita): salvare quello che era rimasto del genere umano. Tutti racchiusi lì in quel posto che un tempo forse era sacro. Una semplice chiesa a tre navate, con l'altare in quella centrale. Era messa in un posto particolare quella chiesa, proprio a ridosso delle mura della capitale. Un tempo si diceva fosse uno dei cancelli. Dietro l'altare c'è una grossa croce di legno nero. Baluardo della sopravvivenza di tutti.

Dovrebbe mancare poco alla prima ondata di oggi e mi guardo intorno con un pizzico di curiosità. Il primo che vedo è un certo Ykops. E' una specie di mago, un burattinaio dice. Si veste sempre di colori sgargianti e ogni tanto allestisce un teatrino di marionette. La prima volta che lo vidi combattere mandando a combattere quelle marionette mi venne da ridere: era proprio buffo. Ogni tanto ci ritrovavamo vicini e ci scambiavamo occhiate d'intesa. Il secondo che vidi era un tizio di cui non ricordo il nome, il cui unico scopo era importunare Dawn, un'amazzone dei regni del sud. Molto formosa di corpo e svelta di cervello, per quanto un po' rude. Probabilmente, dall'abbigliamento, prima era una spia o un assassino. Aveva delle lame retrattili alle mani e svariate armi da lancio. Lui sembrava felice a differenza di altri.

Quanto a me, ero nato nei regni dell'est, in seno alla nobiltà di quelle terre. Avevo ereditato le due spade, segno dell'élite di cui facevo parte, da mio padre. Due splendide spade ricurve, una più corta e una più lunga. Imparai subito ad usarle nella scuola d'armi locale. Ero anche molto interessato all'uso della lancia a lama dritta, studio che avevo svolto parallelamente a quello delle lame. E' l'unica arma che mi sono portato dietro dal mio volontario esilio, insieme alle spade. Come se non riuscissi a liberarmi del mio passato, dopotutto. Ero in fuga da diverso tempo e, in tutti questi anni, ho visto il mondo cambiare velocemente. L'avanzare dei deserti e varie catastrofi climatiche avevano provato la nostra vecchia terra. E l'invasione dei cosiddetti ritornanti non aveva di certo aiutato. Da quello che si sapeva erano umani riportati in vita a causa delle energie negative (radiazioni dicevano alcuni, che strana parola) che erano nell'aria.

Si svegliavano con una grande voglia di carne umana e voglia di restare subito senza cibo dato che prima o poi avrebbero finito il cibo, proprio come noi. Da quegli avvenimenti molto era cambiato. Ci trovavamo nell'ultimo baluardo dell'umanità. Un regno circondato da possenti mura. Vedendo come le altre nazioni cadevano i luminari di questa avevano capito che i ritornanti cercavano sempre il modo più facile per attraversare le mura, istintivamente. Avevano perciò inserito delle “crepe” nelle mura per offrire un punto d'attacco ai ritornanti, per raggrupparli. E quindi distruggerne il maggior numero possibile. La chiesa in cui eravamo era l'ultima crepa nelle mura. Era talmente in dentro che non si potevano usare armi pesanti o d'assedio. Solo l'arma più vecchia del mondo: l'Uomo. Un tempo vi era un esercito specializzato. Ora ci siamo noi.

Sbandati provenienti da tutto il mondo, lì ognuno per le proprie ragioni. Nella cattedrale chi accendeva un fuoco per scaldarsi, si raccontavano storie di guerra e non. Qualcuno cercava di circuire le poche donne che c'erano. Altri si dedicavano alla musica. Spesso mi univo a loro. Persone spezzate che si dilettavano in canzoni strazianti con voce gutturale, sembrava volessero gridare al mondo la loro condizione. Ma il mondo moriva, era messo peggio e non rispondeva. Mi allietavano. Non sono solo, mi dicevo. Anche se li c'erano persone con problemi “seri” ed io ero solo lì per capriccio. Affilavo le mie armi con cura e mi perdevo nei ricordi. Lucidavo l'armatura, di pelle nera come il mio vestito. Ogni tanto venivo chiamato il “guerriero nero” per ovvi motivi. D'un tratto tutto si fermò, il nostro orologio biologico ci diceva che era ora.

Mi misi l'armatura, legai le spade alla cintura e imbracciai la lancia. I miei capelli legati a coda dondolavano nel vento. Mi piazzai poco più in là dell'entrata del luogo sacro, fuori, impugnando la lancia a due mani e pronto per l'assalto. Ykops armeggiava con qualche legno, sentivo che rideva. Un'ora dopo, in cui nessuno si mosse, arrivarono, implacabili come la malattia, claudicanti come i ricordi. Erano un numero indefinito. Nessuno uguale all'altro. Qualcuno imbracciava armi, altri prendevano libri per pronunciare incantesimi. Altri ancora erano umani mutati. Facevano rumore e sollevavano polvere. Ci scagliammo in avanti per incontrarli. L'eccitazione per la battaglia mi ottundeva i sensi e così trafissi il primo di loro, una donna che imbracciava un forcone. Poi continuai.

Seguendo i dettami della mia scuola, che in battaglia prescrivevano la norma “un colpo, un morto”, mi occupai di trapassare le loro teste con la mia lancia. L'unica cosa che poteva fermarmi. Mi muovevo secondo quella che alcuni definivano danza di morte, ma in realtà era solo un sistema per sprecare meno energie possibili e fare il massimo danno, nel minor tempo possibile. Ne uccisi parecchi prima di trovarmi di fronte un uomo che reputai della mia terra. Mi ricordò subito la mia famiglia. Mi attaccava con una mazza ferrata. Nonostante la sua lentezza, dovuta al suo essere ritornante, riusciva a tenermi testa piuttosto bene. Danzammo in circolo per un po quando all'improvviso gli cadde la testa. Poi vidi quel tipo di cui non ricordo il nome che sorrise e scomparve.

Mi sarebbe piaciuto che a casa mia i problemi svanissero così, per opera d'altri. La mia pigrizia non mi permetteva altro. Passavo le mie giornate ad oziare e a sognare di andarmene lontano. Ero costretto in una casa che non volevo a seguire una vita che nessuno aveva chiesto. Non avevo nessun problema serio e questo mi convinse di averne anche troppi. Una vita piatta e senza aspirazioni, dettata da altri. Io volevo una cosa diversa ma ero stato giudicato infantile e, perché no, stupido. Mai preso sul serio e sbeffeggiato per la mia ingenuità. Poi ero scappato. Ho vissuto come mercenario per molto tempo prima di dedicarmi, insieme a questi infelici, alla salvezza del mondo. E anche qui avrei da ridire. Anche qui la pigrizia mi appesantiva e non volevo far niente, darmi al nulla. Solo l'uccidere quei cose mi soddisfaceva.

Uno di loro mi saltò addosso e lo impalai, poi lasciai il cadavere a terra, frantumandogli la testa con il piede coperto dallo stivale. Il crack che sentivo mi faceva tornare in mente gli allenamenti che passavo in palestra, a prendere colpi. Ossa rotte, bozzi, ematomi erano tutto per me. Quello che definiva un vero uomo. Io mi sentivo solo più sciocco e, nonostante tutto, mi ci sento ancora adesso, mentre uccido cadaveri. Perché ci affanniamo tanto? A che scopo? Ho sempre visto tutto avvolto da una patina di inutilità e ho sempre cercato di spiegare così la mia apatia. Ora dovevo ovviare ai casini creati da altri, perché mai? Al primo sbaglio tutto sarebbe finito comunque. Era una vita al limite.

In realtà la croce ci proteggeva. I ritornanti si dirigevano lì perché essa copriva il portone, l'ultimo. Ma non riuscivano a scalfirla, non potevano. Si fermavano a poco spazio eppure gli si avvicinavano, come le falene si buttano nel fuoco. Attratti dalla loro fine forse, come me. E questo permetteva a noi di trucidarli senza che loro potessero fare alcunché, chiusi com'erano tra la croce e noi. Mi ributtai all'assalto e ne uccisi altri due, poi ancora tre e così via. Stanchezza, soprattutto mentale, era la parola nella mia testa. Ero lì da mesi, forse anni e mi sentivo un idiota come il primo giorno. La frustrazione crebbe di colpo e volli morire: furioso con tutti e con nessuno. Scagliai la mia lancia come un giavellotto atterrandone uno e sfoderai la mia spada colpendo uno di loro, decapitazione netta. Continuai la mia danza di morte con la lama a due mano, quella lunga.

Ypoks aveva mandato uno dei suoi burattini ad aiutarmi, mi fermai un secondo a guardarlo. Il suo naso lungo e puntuto mi faceva sorridere, ricordo di storie bambinesche. Al posto delle mani aveva delle lame e usava lo stesso naso per combattere. Ognuno di noi faceva la sua parte. C'era gente che lanciava palle di fuoco, altri pietre. Tutti con la stessa espressione senza senso. L'idea che avevo in testa da un po prese forma tangibile. Forse dopotutto avrei reso la mia vita utile a qualcosa. Sfoderai la spada corta con la sinistra e mi aprii una via verso la croce. Dovevo agire ora, prima di cambiare idea. Passavo tra i banchi della chiesa, uccidevo bambini già morti. Arrivai davanti alla chiesa, lanciai la spada corta per ucciderne un altro e mi guardai intorno. La mia armatura rotta in più punti e i vestiti a brandelli? Quando era successo? L'euforia del combattimento è un'esperienza unica, inspiegabile. Forse ero in fin di vita senza saperlo. Sanguinavo, anche dal viso.

Non riuscivo a spiegarmi niente, come sempre. Frustrato e anche un po incattivito dalla mia visione delle cose alzai la mia spada sopra la testa, taglio del monaco. L'avrei calata sulla croce rompendola e, di fatto, condannando l'umanità. Qualcuno mi avrebbe premiato per questo e se non sarebbe successo, beh non me ne sarebbe importato. Forse è questo quello che rimane da fare, dopo una vita sprecata. Come la mia. Rimettere a posto tutto e quale modo migliore? Al diavolo tutto. Crack. Nessuno mi guardò, forse volevano farlo tutti ma non ne avevano il coraggio. Serviva un fallito come me per farlo. La croce per terra a pezzi occupò mio mio campo visivo e mi sedetti per terra. A godermi la fine.





Furono gli ultimi suoi pensieri, prima della fine vera. Un sogno ad occhi chiusi. Quello che voleva e che forse mai si sarebbe avverato.