domenica 27 aprile 2014

Redenzione

Redenzione

Compito dell'immaginazione è la redenzione della realtà.”

    - Nicolas Gomez Davila





Il letto gli stava stretto, ci viveva ormai da troppo tempo, era stanco, ma forse sarebbe stato accontentato. Chiese la pace dei sensi nonostante fosse furioso con tutto e tutti. Perché lui si e altri no? Ebbe la pace finalmente, presto sarebbe finito tutto.





La battaglia incombeva. Come se nulla fosse. Brandendo la mia spada ricurva a due mani mi avvicinai all'oggetto del mio odio. Sollevai la lunga lama sopra la testa, pronto a caricare il cosiddetto taglio del monaco, chiamato così perché seguiva una traiettoria diagonale dal basso perso l'alto che avrebbe tagliato seguendo una particolare piega del vestito di un monaco. Una tecnica della mia scuola di spada. Pochi secondi e tutto sarebbe finito. Pochi secondi. Inspirai, chiusi gli occhi. Poi li riaprii calando la lama. Il legno cedette. Ora è solo questione di tempo.

***

La cattedrale diroccata è un posto pieno di sbandati, un luogo adatto a me. Ci sono arrivato pochi giorni fa e, nonostante non parli praticamente con nessuno e stia da solo tutto il tempo, mi sento assolutamente a casa. C'è gente venuta da ogni parte del regno e del mondo, tutti in questo posto per il medesimo scopo (o forse perché nessuno di queste persone, me compreso, ne ha veramente uno nella vita): salvare quello che era rimasto del genere umano. Tutti racchiusi lì in quel posto che un tempo forse era sacro. Una semplice chiesa a tre navate, con l'altare in quella centrale. Era messa in un posto particolare quella chiesa, proprio a ridosso delle mura della capitale. Un tempo si diceva fosse uno dei cancelli. Dietro l'altare c'è una grossa croce di legno nero. Baluardo della sopravvivenza di tutti.

Dovrebbe mancare poco alla prima ondata di oggi e mi guardo intorno con un pizzico di curiosità. Il primo che vedo è un certo Ykops. E' una specie di mago, un burattinaio dice. Si veste sempre di colori sgargianti e ogni tanto allestisce un teatrino di marionette. La prima volta che lo vidi combattere mandando a combattere quelle marionette mi venne da ridere: era proprio buffo. Ogni tanto ci ritrovavamo vicini e ci scambiavamo occhiate d'intesa. Il secondo che vidi era un tizio di cui non ricordo il nome, il cui unico scopo era importunare Dawn, un'amazzone dei regni del sud. Molto formosa di corpo e svelta di cervello, per quanto un po' rude. Probabilmente, dall'abbigliamento, prima era una spia o un assassino. Aveva delle lame retrattili alle mani e svariate armi da lancio. Lui sembrava felice a differenza di altri.

Quanto a me, ero nato nei regni dell'est, in seno alla nobiltà di quelle terre. Avevo ereditato le due spade, segno dell'élite di cui facevo parte, da mio padre. Due splendide spade ricurve, una più corta e una più lunga. Imparai subito ad usarle nella scuola d'armi locale. Ero anche molto interessato all'uso della lancia a lama dritta, studio che avevo svolto parallelamente a quello delle lame. E' l'unica arma che mi sono portato dietro dal mio volontario esilio, insieme alle spade. Come se non riuscissi a liberarmi del mio passato, dopotutto. Ero in fuga da diverso tempo e, in tutti questi anni, ho visto il mondo cambiare velocemente. L'avanzare dei deserti e varie catastrofi climatiche avevano provato la nostra vecchia terra. E l'invasione dei cosiddetti ritornanti non aveva di certo aiutato. Da quello che si sapeva erano umani riportati in vita a causa delle energie negative (radiazioni dicevano alcuni, che strana parola) che erano nell'aria.

Si svegliavano con una grande voglia di carne umana e voglia di restare subito senza cibo dato che prima o poi avrebbero finito il cibo, proprio come noi. Da quegli avvenimenti molto era cambiato. Ci trovavamo nell'ultimo baluardo dell'umanità. Un regno circondato da possenti mura. Vedendo come le altre nazioni cadevano i luminari di questa avevano capito che i ritornanti cercavano sempre il modo più facile per attraversare le mura, istintivamente. Avevano perciò inserito delle “crepe” nelle mura per offrire un punto d'attacco ai ritornanti, per raggrupparli. E quindi distruggerne il maggior numero possibile. La chiesa in cui eravamo era l'ultima crepa nelle mura. Era talmente in dentro che non si potevano usare armi pesanti o d'assedio. Solo l'arma più vecchia del mondo: l'Uomo. Un tempo vi era un esercito specializzato. Ora ci siamo noi.

Sbandati provenienti da tutto il mondo, lì ognuno per le proprie ragioni. Nella cattedrale chi accendeva un fuoco per scaldarsi, si raccontavano storie di guerra e non. Qualcuno cercava di circuire le poche donne che c'erano. Altri si dedicavano alla musica. Spesso mi univo a loro. Persone spezzate che si dilettavano in canzoni strazianti con voce gutturale, sembrava volessero gridare al mondo la loro condizione. Ma il mondo moriva, era messo peggio e non rispondeva. Mi allietavano. Non sono solo, mi dicevo. Anche se li c'erano persone con problemi “seri” ed io ero solo lì per capriccio. Affilavo le mie armi con cura e mi perdevo nei ricordi. Lucidavo l'armatura, di pelle nera come il mio vestito. Ogni tanto venivo chiamato il “guerriero nero” per ovvi motivi. D'un tratto tutto si fermò, il nostro orologio biologico ci diceva che era ora.

Mi misi l'armatura, legai le spade alla cintura e imbracciai la lancia. I miei capelli legati a coda dondolavano nel vento. Mi piazzai poco più in là dell'entrata del luogo sacro, fuori, impugnando la lancia a due mani e pronto per l'assalto. Ykops armeggiava con qualche legno, sentivo che rideva. Un'ora dopo, in cui nessuno si mosse, arrivarono, implacabili come la malattia, claudicanti come i ricordi. Erano un numero indefinito. Nessuno uguale all'altro. Qualcuno imbracciava armi, altri prendevano libri per pronunciare incantesimi. Altri ancora erano umani mutati. Facevano rumore e sollevavano polvere. Ci scagliammo in avanti per incontrarli. L'eccitazione per la battaglia mi ottundeva i sensi e così trafissi il primo di loro, una donna che imbracciava un forcone. Poi continuai.

Seguendo i dettami della mia scuola, che in battaglia prescrivevano la norma “un colpo, un morto”, mi occupai di trapassare le loro teste con la mia lancia. L'unica cosa che poteva fermarmi. Mi muovevo secondo quella che alcuni definivano danza di morte, ma in realtà era solo un sistema per sprecare meno energie possibili e fare il massimo danno, nel minor tempo possibile. Ne uccisi parecchi prima di trovarmi di fronte un uomo che reputai della mia terra. Mi ricordò subito la mia famiglia. Mi attaccava con una mazza ferrata. Nonostante la sua lentezza, dovuta al suo essere ritornante, riusciva a tenermi testa piuttosto bene. Danzammo in circolo per un po quando all'improvviso gli cadde la testa. Poi vidi quel tipo di cui non ricordo il nome che sorrise e scomparve.

Mi sarebbe piaciuto che a casa mia i problemi svanissero così, per opera d'altri. La mia pigrizia non mi permetteva altro. Passavo le mie giornate ad oziare e a sognare di andarmene lontano. Ero costretto in una casa che non volevo a seguire una vita che nessuno aveva chiesto. Non avevo nessun problema serio e questo mi convinse di averne anche troppi. Una vita piatta e senza aspirazioni, dettata da altri. Io volevo una cosa diversa ma ero stato giudicato infantile e, perché no, stupido. Mai preso sul serio e sbeffeggiato per la mia ingenuità. Poi ero scappato. Ho vissuto come mercenario per molto tempo prima di dedicarmi, insieme a questi infelici, alla salvezza del mondo. E anche qui avrei da ridire. Anche qui la pigrizia mi appesantiva e non volevo far niente, darmi al nulla. Solo l'uccidere quei cose mi soddisfaceva.

Uno di loro mi saltò addosso e lo impalai, poi lasciai il cadavere a terra, frantumandogli la testa con il piede coperto dallo stivale. Il crack che sentivo mi faceva tornare in mente gli allenamenti che passavo in palestra, a prendere colpi. Ossa rotte, bozzi, ematomi erano tutto per me. Quello che definiva un vero uomo. Io mi sentivo solo più sciocco e, nonostante tutto, mi ci sento ancora adesso, mentre uccido cadaveri. Perché ci affanniamo tanto? A che scopo? Ho sempre visto tutto avvolto da una patina di inutilità e ho sempre cercato di spiegare così la mia apatia. Ora dovevo ovviare ai casini creati da altri, perché mai? Al primo sbaglio tutto sarebbe finito comunque. Era una vita al limite.

In realtà la croce ci proteggeva. I ritornanti si dirigevano lì perché essa copriva il portone, l'ultimo. Ma non riuscivano a scalfirla, non potevano. Si fermavano a poco spazio eppure gli si avvicinavano, come le falene si buttano nel fuoco. Attratti dalla loro fine forse, come me. E questo permetteva a noi di trucidarli senza che loro potessero fare alcunché, chiusi com'erano tra la croce e noi. Mi ributtai all'assalto e ne uccisi altri due, poi ancora tre e così via. Stanchezza, soprattutto mentale, era la parola nella mia testa. Ero lì da mesi, forse anni e mi sentivo un idiota come il primo giorno. La frustrazione crebbe di colpo e volli morire: furioso con tutti e con nessuno. Scagliai la mia lancia come un giavellotto atterrandone uno e sfoderai la mia spada colpendo uno di loro, decapitazione netta. Continuai la mia danza di morte con la lama a due mano, quella lunga.

Ypoks aveva mandato uno dei suoi burattini ad aiutarmi, mi fermai un secondo a guardarlo. Il suo naso lungo e puntuto mi faceva sorridere, ricordo di storie bambinesche. Al posto delle mani aveva delle lame e usava lo stesso naso per combattere. Ognuno di noi faceva la sua parte. C'era gente che lanciava palle di fuoco, altri pietre. Tutti con la stessa espressione senza senso. L'idea che avevo in testa da un po prese forma tangibile. Forse dopotutto avrei reso la mia vita utile a qualcosa. Sfoderai la spada corta con la sinistra e mi aprii una via verso la croce. Dovevo agire ora, prima di cambiare idea. Passavo tra i banchi della chiesa, uccidevo bambini già morti. Arrivai davanti alla chiesa, lanciai la spada corta per ucciderne un altro e mi guardai intorno. La mia armatura rotta in più punti e i vestiti a brandelli? Quando era successo? L'euforia del combattimento è un'esperienza unica, inspiegabile. Forse ero in fin di vita senza saperlo. Sanguinavo, anche dal viso.

Non riuscivo a spiegarmi niente, come sempre. Frustrato e anche un po incattivito dalla mia visione delle cose alzai la mia spada sopra la testa, taglio del monaco. L'avrei calata sulla croce rompendola e, di fatto, condannando l'umanità. Qualcuno mi avrebbe premiato per questo e se non sarebbe successo, beh non me ne sarebbe importato. Forse è questo quello che rimane da fare, dopo una vita sprecata. Come la mia. Rimettere a posto tutto e quale modo migliore? Al diavolo tutto. Crack. Nessuno mi guardò, forse volevano farlo tutti ma non ne avevano il coraggio. Serviva un fallito come me per farlo. La croce per terra a pezzi occupò mio mio campo visivo e mi sedetti per terra. A godermi la fine.





Furono gli ultimi suoi pensieri, prima della fine vera. Un sogno ad occhi chiusi. Quello che voleva e che forse mai si sarebbe avverato.