lunedì 31 agosto 2015

Scarecrown, Parte Quinta - Un Tizio Simpatico

Scarecrown, Parte Quinta – Un Tizio Simpatico



Noi dobbiamo abbracciare il dolore e bruciarlo come combustibile per il nostro viaggio.”

    - Kenji Miyazawa



Prese in mano i tre volumi da terra e li mise al loro posto, sulla mensola. Rimase a guardarli per cinque minuti, poi si decise a girarsi e ad andare al pianoforte. Era tutto il giorno (e tutta la settimana) che pianificava quell'ora di composizione. Si sedette sullo sgabello del pianoforte con le mani pesanti e il cuore agitato. Sentì dei rumori ma non ci badò. Mise il dito su un Do, Rachmaninov lo osservava con una faccia severa. Aveva attaccato quella foto molti anni prima sulla parte di muro sopra il piano come fonte di ispirazione, ma non poteva fare a meno di sentirsi inquieto al suo cospetto. Era una notte di luna piena ma la sua casa era labirintica e piena di anfratti oscuri. Mise sul leggio un pentagramma vergine e prese una matita, mettendosela in bocca. L'espressione del maestro si era forse mossa? Le tende del balcone avevano avuto un fremito? Con questi quesiti in testa iniziò a suonare.

Le dita gli tremavano. Si maledì per aver finito le birre dato che un po' di alcol lo avrebbero aiutato ad affrontare la situazione. Dopo pochi minuti la casa gli diede tregua e trovò la concentrazione. Suonava e scriveva, e pensava. Poi sentì un altro rumore, come di legno. Subito dopo dal bagno sentì dell'acqua ribollire e decise di andare a controllare. Ovviamente nulla era fuori posto e decise di svuotarsi la vescica. Tornando nel soggiorno trovò per terra gli stessi tre libri che aveva sistemato poco prima. E li rimise a posto, poi tornò al piano. La musica nasceva più spontanea ora e rimase seduto per due ore o più. Si scostò i capelli lunghi e corvini dalla faccia, era sudatissimo. Aprì la finestra, la nebbia circondava il suo palazzo. Si appoggiò alla finestra guardando la camera oscura. Poster di pentacoli e demoni cornuti occupavano la stanza.

In libreria libri di occultismo, demonologia e fumetti. Una montagna di vinili vecchi e consumati, molti di essi con titoli volutamente quasi illeggibili. La console sotto la televisione sembrava chiamarlo come un demone femminile libidinoso. Decise di ascoltare della musica e prese un vinile del maestro: la sua casa divenne un'isola abitata da nonmorti; lui era un ramingo in cerca del barcaiolo dell'oltretomba. E mentre ascoltava leggeva resoconti di esperimenti occulti e in cuor suo si credeva come fosse possibile che così tante persone fossero così ossessionate dall'occulto come lui. Con la differenza che la suddetta gente non si fermava sui libri, ma andava oltre. Molto oltre. Così tanto da ricordarselo. Lui si era fermato sui libri e sul cinema, era schifosamente interessato ma aveva paura. Nonostante i lunghi capelli, nonostante la libreria e nonostante i poster alle pareti. Si considerava un tipo divertente.



I quattro esploratori si disposero per affrontare i demoni urlanti nelle catacombe della fortezza. Lo spadaccino orientale in prima linea insieme al selvaggio nordico. Subito dietro il cacciatore di streghe preparava il suo archibugio e prendeva la mira. Ultimo veniva il prete, che salmodiava parole con un libro sacro in mano. E furono scintille, sangue, fulmini e odio, un mare di odio urlante e sconsiderato. E i demoni caddero, ma per il gruppo non era finita li. E continuarono ad avanzare. E uccisero innumerevoli nemici... Arrivarono al negromante e combatterono aspramente contro esso stesso e la sua corte di morti assetati. Come si può uccidere qualcosa di già morto? Si chiedevano. Ma continuavano a combattere nonostante uno di loro avesse manifestato chiari segni di follia. Del resto, era inevitabile. Poi-



Spense la console. Il salvataggio automatico era attivo. E si mise nuovamente al piano. Forse poteva proporre qualcosa alle prossime prove col gruppo in cui era appena entrato. Si erano visti solo una volta finora e gli erano sembrati bravi ragazzi. Affamati come lui, ma tutti con seri problemi. Anche se forse lui era l'unico che doveva preoccuparsi di una sedia che scricchiola proprio quando ci passi vicino o a stare attento ogni volta che poggiavi la testa su un cuscino. Stava per decidere che nome dare al componimento quasi finito quando si girò a causa di un rumore. La console era accesa e mostrava il menù principale del gioco. Cercò di mantenere un contegno nonostante dentro volesse solo rendersi invisibile. Spense (ancora) la console. E si sedette, di nuovo. Ma non riuscì a comporre, la sua testa era altrove, in cerca di qualcosa che non sapeva ben definire.

Voleva evadere. Dalla casa, dalla vita, da tutto. E andò alla finestra, la luna appena visibile dietro la nebbia. Fuori sentì dei lupi ululare ed ebbe freddo nonostante fosse agosto. Prese un altro vinile, in copertina vi si vedevano degli orchi marciare verso una torre, il titolo era scritto con un font pieno di lettere aguzze. Combattiamo il male col male, pensò. E provò a convincersene senza risultato. Iniziò a camminare per la stanza. Mise tre libri caduti a terra sulla mensola e cercò di calmarsi. Tra poco sarebbe andato a letto, eppure non ne aveva molta voglia. Il volantino di reclutamento sul tavolo... Si era sentito chiamato da quel pezzo di carta e aveva capito perché appena li aveva visti. Tutti con lo sguardo spento, le membra tarde. Ma in sala prove quello sguardo spento diventava infuocato, le mani si muovevano veloci seguendo sentieri quasi oscuri. C'era del feeling.

Ogni volta che tornavano a casa erano sempre sudati e ancora più arrabbiati di quando avevano iniziato, forse perché avevano finito. La ragazza del chitarrista sembrava l'unica donna ammessa dal momento che c'era sempre e nessuno aveva mai posto il quesito di portarne altre. Era una donna inquietante almeno quanto il suo amico ma aveva il buonsenso di fare la statua e non interrompeva mai. Si ricordava anche che uno di loro, non ricordava chi, gli aveva detto che non sapeva proprio come avessero fatto senza la sua tastiera, prima. Lui sollevò le spalle interrogativo, son cose che capitano. E pensò alla sua vita, alla sua casa sperduta nella periferia e alla sua maledetta, schifosa, dannata paura del buio. Pensò a Batman, che si vestiva in quel modo perché aveva paura dei pipistrelli. Era come un farmaco. Il male lo uccideva e lo fortificava, a turno. Ed era tutto così affascinante. E fu la conclusione.



Mani si unirono sul tavolo, la gente tremava. La donna cieca aprì la bocca, da cui fuoriuscirono vapori verdastri. Le persone ammutolirono, il buio pareva un ospite indesiderato ma indispensabile. Il tavolo iniziò a tremare. Uno trovò un momento per un sorriso, ma durò poco. Le sue mani erano sudate, si sentiva morire lentamente. Si chiese come mai fosse li, perché avesse accettato e perché nessuno aveva ancora avuto la brillante idea di interrompere tutto. Forse era solo lui che voleva farlo e non gli sembrò giusto far finire tutto, decise perciò che doveva andarsene. Ma non riusciva ad alzarsi. Fascino per la distruzione, per l'ottenebramento delle regole. Ma la verità era che si sentiva la biancheria intima pesante. Poi la donna urlò e la sua voce aveva ben poco di umano, lui si alzò di colpo e corse alla porta, mezzo secondo prima di imboccare l'uscita vide qualcosa che non avrebbe mai scordato.



Si scosse. Era seduto sul muro sotto la finestra. Non si era assopito, capì che aveva cambiato stato, anche se era pronto a giurare che non stava dormendo. Come mai si era messo a pensare a quella storia? Era stato molti anni prima e non aveva senso collegarlo con l'oggi e i recenti fenomeni. Ma una mente si aggrappa dove può, del resto quasi sicuramente era essa stessa a fare tutto. Per motivi sconosciuti ai più, ma lui sapeva che in qualche modo era lui a far succedere tutto. E ovviamente quella considerazione lo riempiva di interrogativi immortali. Sapeva solo che si sentiva un estraneo in casa propria. E intanto la finestra si chiuse con un boato nonostante fuori non ci fosse un filo di vento. E d'improvviso gli venne in mente il nome per quello che stava facendo: Lobotomia, perché quei fenomeni, in preda ai quali aveva scritto, gli stavano trapanando il cervello (e l'eventuale anima).

Forse l'avrebbe sottoposta ai suoi amici, forse no. Ma si sentiva soddisfatto. Non l'avrebbe salvato da tutto quello, ma non ignorarla era sempre meglio che fare finta di nulla. Tutto sarebbe continuato indipendentemente da Lobotomia. Ma scrivendola dava a se stesso potere. Un potere che non sapeva definire, ma sempre meglio di niente. Poi, contro ogni previsione, si stese a letto, con le orecchie tese e con la fronte madida di sudore. Sarebbe stata una lunga notte. Tempo dopo sentì un tonfo... Dio come odiava quei tre maledetti libri.



Insomma anche oggi niente male.” disse qualcuno riponendo il proprio strumento.

Già... E era ci tocca tornare a casa, bah...” rispose una figura magra.

Ti capisco.” Disse lui. E l'unica cosa a cui riuscì a pensare fu una maledizione verso certi tre libri. Si chiamava Ivan.

Eddai, non avrai mica la casa infestata. “ Disse il primo.

No, ma dai.” Rispose Ivan. “Sono io a essere infestato.”

Tutti si concessero una breve risata. Era proprio una persona divertente.

domenica 9 agosto 2015

Racconto Interattivo - La Locanda nella Nebbia

Per leggere andare quì ----->

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 Godetevi anche i commenti sotto :D E vi invito a leggere anche gli altri corti, sono tutti bravissimi.

giovedì 4 giugno 2015

...

La prima volta che la vide non riuscì a crederci. Era davvero troppo bella: in piedi sul davanzale della terrazza, la luna piena dietro di lei, le braccia aperte. Una figura angelica (o forse diabolica data la netta predominanza del colore nero nella sua figura) coi capelli corvini svolazzanti e acuti e glaciali occhi blu. Era tutto troppo bello per essere vero e il giovane pensò di dover morire. Si, pensò, è giusto morire dopo aver visto qualcosa del genere, anche perché tutto il resto avrebbe perso irrimediabilmente colore. Una noia totale. Fu abbastanza sicuro di essere rimasto vivo, perciò decise di sbattere gli occhi per esserne sicuro. E lei rimase lì con il suo corpetto e i pantaloni stretti neri, le braccia nude, un seno equilibrato e i guanti di pelle alle mani. Dischiuse le labbra mormorando qualcosa che lui non capì e scese dal davanzale, i lunghi capelli neri nella brezza. E lui sentì un fuoco dentro di se.

Lei gli si avvicinò e premette delicatamente un dito sulle sue labbra. Poco dopo parlò e lui comprese. Comprese tutto. La prese per mano e la accompagnò per i corridoi della fortezza. Scale, porte, nascondigli e segreti. Tanti segreti, ma non per lui dato che viveva in quei segreti da quando aveva memoria. Le fece vedere i suoi alloggi, le cucine e tanto altro. Poi andarono nel luogo più importante, quello con una grande porta davanti, ma lui aveva le chiavi, perché era il suo lavoro. Ed entrarono, lui davanti e lei dietro e i suoi occhi di ghiaccio brillarono ancora di più. La sua pelle pareva come latte e il giovane si ritrovò a fantasticare ancora una volta. Poco dopo furono fuori, lei era felice col suo sacco pesante in mano, lui un po' combattuto. Ma ebbe un premio sulla sua guancia e il mondo svanì. Seppe benissimo di essere un idiota, ma decise anche che essere idiota per un motivo (dei tanti) in più non avrebbe cambiato le cose.

Ma magari si sbagliava.

E quindi passò del tempo. Lei venne altre volte, sempre verso la stessa ora. Sempre vestita allo stesso modo, pareva che il tempo fosse solo una stupidata per lei. Facevano il solito giro e qualche tempo dopo, sul davanzale, si trattenevano a parlare. E a sfiorarsi. Poi a toccarsi. Ogni tanto la sua pelle alabastrina si colorava di un rosso tenue mentre lui le sfiorava il gomito scoperto. Lei poi lo accarezzava con la sua mano sulla guancia e lui rideva. E ad entrambi brillavano gli occhi. Lui scoprì, col tempo, che lei aveva qualche anno più di lui, benché fra di loro potessero starci due oceani quanto a diversità della vita. E tempo dopo intrattennero quelle conversazioni anche altrove: qualche volta nelle prigioni o nella sua camera. Poi sulle scale dei corridoi dei servi o davanti alla porta del maestro d'armi. Sempre di notte.

E successe ancora e ancora, molte volte. Una volta lei prese l'iniziativa e lo baciò furtivamente sulla bocca; un'altra la vide sgattaiolare fra i tetti prima di venire da lui, agile e silenziosa come un gatto; un'altra volta lei, sorridendo, gli mise una mano poco più in basso e lui fu sul punto di scoppiare, poi, poco dopo, udì dei rumori e, tenendola per mano, la portò in una delle tante alcove nella fortezza. Rimasero lì per molti minuti, anche dopo che furono passate le guardie che si occupavano della ronda. Lui tenne entrambe le sue mani premute sulla bocca di lei per tutto il tempo, le mani inguantate di lei sulle sue braccia, mentre rimanevano immobili come statue di ghiaccio. Poi lei mise una mano dietro la sua schiena a sfiorare qualcosa e notò che qualcosa era cambiato, era più grande. Ma era l'alba e si separarono. Lui aveva le guance rosse come quelle di una volpe.

E si videro ancora e ancora. E lui, tempo dopo, capì che lei si intratteneva con lui per avere sempre quel sacchetto, tutte le sere. Non era stupido fino al punto di pensare che fosse lì per lui, ma lasciò correre. Mai porsi troppe domande sulle cose belle, gli dicevano. E poi una sera lei apparve come sempre, ma pareva triste, più del solito almeno. E lui non capì ma non se ne preoccupò. Ma passò un'altra notte e lei tornò ancora. Lei gli parlò di un cavallo e gli chiese di venirsene con lei, fuori dalla fortezza, a vedere il mondo. Lui tentennò ma pochi giorni dopo cedette e disse di si, lei parve un po' turbata. Lui aveva notato che l'umore di lei pareva peggiorare di giorno in giorno ma si disse che non erano fatti suoi, del resto pareva che le cose si fossero evolute fra di loro. E si accordarono per la notte seguente. Tutto sembrava normale.

Fece un piccolo fagotto con le sue cose e uscì col chiaro di luna, come la prima volta che si videro. Fece le strada che gli era stata detta. Lei era sotto un grande albero, vestita come sempre coi suoi indumenti stretti di pelle, sul cavallo. Ma era di spalle. E questo gli sembrò strano. Fra di loro c'era ancora un bel pò di spazio e lui si avvicinò. Poco dopo lei girò la testa guardandolo coi suoi occhi blu scintillanti ma non disse niente e lui non ne capì il perché. E si avvicinò ancora. E vide che lei aveva le labbra coperte da quella che sembrava una striscia di cuoio. E lui capì, anche se si considerava un idiota. Nel frattempo sentì una mano che gli chiudeva la gola in una morsa e un'altra appoggiargli un coltello alla testa. Il cavallo di lei si girò mostrando le mani inguantate di lei legate sul pomo della sella del quadrupede. Molte figure scure dietro di lei. Lei strinse gli occhi. Lui fu sul punto di piangere o di gridare, ma la stretta sul suo collo gli fece perdere i sensi.





Si risvegliò in una stanza buia, le braccia incatenate al soffitto, era completamente nudo. Lei era lì davanti senza vestiti, inginocchiata per terra. Aveva gli occhi rossi di pianto, un uomo le teneva un coltello tra i denti, minacciando cose terribili. Un altro stava mettendo un ferro nel fuoco rendendolo incandescente. Il giovane si lasciò scappare una bestemmia sottovoce.

Ecco i due piccioncini, la puttanella ladra e il servo innamorato. E idiota direi.”

Lui quasi rise, aveva proprio ragione.

Puoi rispondere alle nostre domande? Da quanto tempo questo malsano giochino erotico del cazzo va avanti? No perché, la stanza dell'oro pare essersi alleggerita...”

Il suo compare: “Come fai a dirlo? Mica la puoi sollevare, non ha sens-”

Zitto idiota, è una metafora. Lui portava la qui presente a rubare e lei, in cambio, gli faceva una sega o due. O qualcos'altro, boh. La cosa è divertente perché ho visto donne molto meno delinquenti di lei dare molto meno per cose più grandi, o non dare niente. Complimenti per la benevolenza, mi staresti anche simpatica, ma vedi... Il lavoro è lavoro.” Il giovane si accorse che colui che aveva parlato, quello che aveva il ferro in mano, era in realtà una lei. Non che cambiasse troppo.

Intanto il suo amico colse l'opportunità e mise una mano sul sedere della prigioniera per qualche secondo, ridendo di gusto. Il prigioniero si prese un pugno nei denti.

Allora mi rispondi? O vuoi che ti aiutiamo?” disse avvicinando la sbarra.

Non so da quanto, so che lei viene da un po' e prende dell'oro. E, magari, passavamo del tempo insieme...”

Ma almeno te l'ha data?”

Di che parli?”

Lei rise di gusto ma non rispose. “Troia ingorda. Ma dimmi piuttosto, ragazzino, come mai abbiamo trovato un sacco pieno nella tua stanza?” Lui sgranò gli occhi senza capire. La carceriera si avvicinò alla ladra, spostò il coltello e disse: “Racconta tutto ancora una volta, magari lui si rinfresca le idee, che palle!”

E lei raccontò di come lui in realtà l'avesse pagata come copertura per il fatto che era LUI, e non LEI, a rubare. Che la costringeva a quelle cose e che lei non aveva interesse per quell'oro.

Ma ti ricattava?”

Si!” Fu la pronta risposta. La carceriera ruttò e si mise a ridere. “Ti credo eh...! E tu che dici?”

Non è vero! Con che la ricattavo? Non esco da questa fortezza da quando mi ricordo di essere nato!”

Infatti, bugiarda del cazzo. Non ti credo. Perché non confessi? Magari evito di abbrustolirti la fregna.” La ladra pianse più forte senza rispondere, pareva nel panico. Passò qualche minuto, poi il palo parve avvicinarsi alla sua faccia, lei urlò.

NO NO ASPETTA CONFESSO!”

Confessi cosa?”

Tutto! Che ne so, quello che volete!”

Non hai fatto niente vero? Vuoi solo proteggerla, povero sfigatello.” Lui fu sul punto di negare ma strinse i denti. “Aahahah, ok. Una confessione vale l'altra.” E spostò il ferro vicino a lui.

E' così romantico!” Disse prima di infilare quella sbarra nell'occhio sinistro di lui.





Dolore. Dolore. Dolore.

Il suo occhio mancante pulsava. E lacrimava, lacrimava sangue, pus e uno strano liquido nero. E magari anche lacrime vere. Aveva paura degli specchi e passava il tempo rannicchiato in posizione fetale.

Questi bastardi mi hanno staccato un occhio...” E piangeva.

Lei era in un angolo, la testa sulle ginocchia. Lui si girò e vide che le dita della mano destra di lei erano scomparse. Tutto per nulla, o forse no?

Il mio occhio... Come cazzo faccio ora... Il mio fottuto occhio di merda!” Lei gli si avvicinò cercando di sfiorarlo coi moncherini della sua mano.

NO! Vattene!”

Mi dispiace.” Disse lei. “Avevo troppa paura, ma ti aiuterò, giuro.” Era calma.

Mai!” Altri singhiozzi. Lei pianse.

Dovevi essere tu...” Disse tra bava, singhiozzi e vomito. E sangue. “Dovevi essere tu...”





Qualche anno dopo una signora si stava ritirando a casa dopo aver fatto compere e per caso udì che i capi carcerieri della fortezza erano stati trovati morti di paura nei loro letti, moglie e marito. La signora sorrise e pensò che doveva essere proprio brutta una morte così. Dicevano di averli trovati con un'espressione demoniaca in viso, come se avessero visto il signore dei fottuti inferi in persona. Ma tornò a casa di buona lena. Entrò. Nella stanza c'era un uomo vestito di nero che pareva aspettarla da molto tempo, un cappuccio calato sulla testa e due spade, una corta e una piccola, alla cintura. Lei non si scompose troppo e sorrise.

La posso aiutare?”

Forse.” Disse una voce stranamente calda. Lui si tolse il cappuccio, il suo occhio sinistro era coperto da una benda.

Lei d'impulso avvolse la sua mano destra nelle pieghe del cappotto. I moncherini le prudevano.

Già, penso proprio di si.” Disse lui.



***



Alessandro parve svegliarsi dal coma. La canzone era appena finito ed era sudato, molto sudato. Gli pareva di averla distrutta quella batteria, ma eccola ancora là. Intanto la disegnatrice disse che aveva finito e sottopose al gruppo la sua opera. Una figura nera coperta da un'armatura, con un solo occhio e con una spada in mano si ergeva in un campo di battaglia rosso fuoco, come se si combattesse in un vulcano. Morti ovunque e sullo sfondo la figura evanescente di un castello pieno di guglie. Sembrava la copertina di un fumetto d'autore, nonostante il tratto violento. Davide baciò con trasporto la sua ragazza, come premio per quella roba. E tutti furono abbastanza felici, avevano la copertina del nuovo lavoro. Poi andarono al pub decisi a parlare del video che avrebbero girato di li a poco per il singolo One Eye. Alessandro prese la parola per primo dopo essersi scolato una pinta di birra rossa, cosa che nessuno gli aveva mai visto fare (non in così poco tempo).

Ho un paio di idee per il video.” E raccontò tutto.

Che roba malata, ma da dove l'hai presa?” Chiese uno.

Mah, un po' là e un po' qua.”

Fanculo tu e i romanzi merdosi che leggi.” Disse un altro. Ma tutti sapevano di aver risolto la questione del video.

Fossero solo quelli.” Rispose Alessandro.



Vendetta, il boccone più dolce che sia mai stato cucinato all'inferno.”

    - Walter Scott



Scarecrown, Parte Quarta

mercoledì 11 febbraio 2015

Vettore

Vettore

Colonna Sonora: Opeth – Ghost Reveries (Full Album)



Guardami negli occhi. Una battaglia di spade è prima di tutto una battaglia di sguardi.”

- Massima di uno spadaccino



Neve, grandine e pioggia. Tutto insieme. Era una brutta notte, ma la luna era piena. La luna è sempre piena quando deve esserlo o quando qualcosa sta per succedere. E' una cosa che si può chiedere a chiunque, basta provare. Uomini lupi, sacrifici in notti sacre, festività musicali tenebrose e raduni di esseri oscuri. Tutti con la luna piena. E questo lo sapeva il viandante in nero, lo sapeva bene. Camminava leggermente curvo in avanti, come una freccia che andava verso un obiettivo lontano. Coperto completamente da un mantello marrone completamente zuppo di pioggia e sporco di escrementi di uccelli e altri animali. Dal fianco sinistro sporgeva qualcosa di oblungo, come se portasse qualcosa di lungo appeso alla cintura. L'unica parte del corpo non coperta dal mantello era il volto: un osservatore auto poteva vedere che l'occhio sinistro era coperto da una benda (allo stesso modo di alcuni corsari, avrebbe detto qualcuno), anche se, ad un primo sguardo, non si vedeva alcuna cicatrice. Barba folta e incolta gli incorniciava i lineamenti.

Un esperto di fisiognomica avrebbe detto che i suoi lineamenti, e soprattutto il grugno schifato, erano tipici di persone dure e facili alla collera. Ad un secondo esame, vedendo magari che il viandante scopriva spesso i denti, avrebbe detto che era una persona animalesca o una che teneva a stento a freno i propri istinti violenti. Probabilmente aveva ragione, probabilmente no. Del resto chiunque decida di voler capire tutto di una persona solo guardandola in faccia non è molto acuta. E' per questo motivo che le leggende sono piene di eroi belli che rovinavano ancora di più i volti, già deturpati, degli antagonisti mostruosi. Leggende appunto. La vita vera non è così, allo stesso modo per cui non esistono le persone cattive (e così quelle buone). Certo era che probabilmente lo straniero era arrabbiato. Per il tempo, per l'ansia crescente e per la preoccupazione per le condizioni del suo equipaggiamento.

Prevedeva ancora una lunga notte di cammino irta di nausea e bisogno di orinare e defecare, cose per nulla facili dato il suo vestiario. Il bosco in cui stava camminando sembrava deserto ma lui sapeva che era pieno di vita. Probabilmente tutti si tenevano alla larga a causa dell'aura estremamente negativa e forse ignota che emanava il viandante. Del resto se lo avessero attaccato molto probabilmente se ne sarebbero pentiti. Sia che si trattasse di animali o esseri intelligenti con le orecchie a punta. SI trattava anche di odio, un odio capriccioso verso le cose, come diceva lui, “troppo naturali”. Come un bosco. Se era vero che l'uomo era nato per vivere nella natura, allora lui NON lo era. I suoi luoghi preferiti erano estremamente umani, come campi di battaglia o quartieri di piacere. E ora si trovava a camminare in mezzo al nulla, con le condizioni atmosferiche critiche e una fortissima voglia di uccidere qualcosa per l'irritazione.

Il tempo, ovviamente, non accennava affatto a migliorare o a calmarsi. Ma questo lui lo sapeva, c'era abituato. Non era la prima volta che si ritrovava a fare qualcosa di importante con tutto il dannato universo a cospirargli contro. Il viandante però andava avanti lo stesso. Più il mondo gli andava addosso più lui, caparbiamente, opponeva un netto rifiuto. Camminava sempre controvento. E questo lo faceva arrabbiare, anche se di fatto era una sua scelta. E intanto il paesaggio cambiava: gli alberi lasciavano posto ad antiche rovine coperte d'edera, poi a città in rovina. Lentamente le montagne, che prima coprivano tutto l'orizzonte come le mura di una fortezza molto estesa, cominciavano a sparire. Un breve tratto di collina e poi irrompeva con violenza la nuda pianura. Brulla, coperta di sterpaglie e con qualche cadavere scheletrico nel mezzo. Il viandante sapeva che era vicino.

Con lo sguardo fisso davanti a se allungava il passo. L'eccitazione e la frenesia erano forti almeno quanto le precipitazioni nella sua testa. E arrivavano i primi rumori, odori e visioni. Dardi fiammeggianti che cadevano dal cielo, esplosioni, odore di zolfo e sangue. Grigio ovunque, dalle armature alle armi che si vedevano in lontananza. Macchine d'assedio e asce. Il tutto, anche stranamente i proiettili infuocati, sotto la pioggia mista a neve. Arrivando vicino la calca appariva lentamente. Esseri con la pelle verde e corpulenti, femmine snelle vestiti di verde, nanetti barbuti ricoperti di metallo lucente, guerrieri con ali sull'elmo, assassini ricoperti di nero e figure longilinee che impugnavano bastoni nodosi. Fulmini, saette, ghiaccio. E morte, tanta morte. E odio, lucente tanto negli occhi degli sconfitti quanto in quelli dei temporanei vincitori. Tutto questo, e molto altro, appariva davanti al viandante.

La tensione scompariva lentamente, i nervi si rilassavano e il viso si distendeva, il respiro tornava regolare. Girando la testa per osservare quante più persone possibili diminuiva il passo. Ormai era arrivato e non aveva più fretta. Un barbaro nerboruto e un demone cornuto si combattevano mentre una folata di vento gli spostava il cappuccio rivelando la sua intera testa. I capelli erano tenuti alla foggia orientale, con un codino corto che stava sulla sommità del capo. I capelli, seppur pettinati alla buona, rivelavano alcune ciocche fuori posto. La fronte era cinta da una fascia nera che teneva in su i capelli, utile per evitare che il sudore scivolasse sugli occhi. Lentamente spostava una mano, poi tutto il corpo. Niente più mantello. Il viandante si presentava con una tipica armatura delle terre del sole nascente, tutta di colore nero, che lo ricopriva interamente (solo la testa era scoperta). Al fianco si incrociavano le due spade ricurve simbolo della sua casta: quella lunga e quella corta.

Al collo portava una sciarpa, anch'essa nera, messa li probabilmente per problemi relativi alla bassa temperatura. Il vento gli sferzava addosso facendo cigolare lentamente la sua armatura. La sua mano sinistra sull'impugnatura della spada lunga, pronto a fendere qualunque cosa gli si trovasse davanti con una tecnica molto in voga nel suo lontano paese. Un piccolo essere, nella foga della battaglia (senza capire da che parte stava o stavano tutti gli altri), correva verso di lui brandendo una mazza sporca. E arrivava la sua risposta: un breve sibilo di metallo simile ad un piccolo lampo, un urlo gutturale e una testa che volava. Tutto questo senza smettere di camminare. E la sua spada era nel fodero. Il ghigno diventava sorriso mentre avanzava nella calca. Ormai nessuno sapeva più per cosa si combatteva, sempre che questo qualcosa esistesse.

Gli avevano detto che lo avrebbe trovato senza particolari difficoltà. Che la sua presenza lo avrebbe guidato. Tutto vero, eccolo li. Un guerriero vestito di bianco con una piuma nel cappello, cappa sulla spalla sinistra e con una leggera armatura di cuoio che gli copriva il petto. Lo aspettava con le sue due spade sfoderate, uno stocco leggero di acciaio elfico e una daga a lama triangolare. Era già in posa. Il viandante intanto metteva la mano destra sull'impugnatura della spada lunga ora correndo in avanti. Un sibilo, poi un clangore di acciaio: prima nota di una musica nervosa e irregolare, arrangiata da due persone la cui unica cosa in comune era l'estremo odio per l'altro. Non c'erano parole o saluti o convenevoli. Solo le armi, non c'era davvero bisogno di altro. Il bianco aveva parato il suo attacco con la lama lunga e si preparava a contrattaccare con la daga.

Il viandante si difendeva. Teneva la lama lunga tenuta a due mani. Sulla lama si potevano intravedere rune naniche. Poi di nuovo si lanciavano all'attacco con affondi e fendenti. Il metallo ballava e cantava insieme, le scintille cadevano dappertutto incendiando i loro visi distorti dal sudore e dalla fatica. Poi le braccia cominciavano a tentennare e i primi graffi cominciavano ad apparire sui duellanti: sulle guance, sulle braccia o sulle gambe. Errori di distrazione o fatica, nulla di preoccupante. Il bianco cercava un gioco di polso e aveva un ottimo movimento di gambe, il nero era ben saldo e tendeva ad effettuare movimenti molto ampi con la propria lama ricurva. Di nuovo le lame si incrociavano fermandosi e stridendo. E, come un serpente, si muoveva la daga. Al nero non era sfuggito e la sua risposta, sotto forma di calcio al petto, scaraventava il bianco all'indietro con la daga che aveva sferzato solo il primo strato di pelle.

Il nero intanto aveva appoggiato la mano sinistra sulla spada corta, sfoderandola.

Si erano messi in posizione, come due divinità guerriere dei tempi antichi, aspettando e pregustando il momento buono per finire quella lunga storia. Per sempre. Un altro assalto: le loro lame saettavano e serpeggiavano, ora toccandosi, ora evitandosi. Occhi mortali non potevano seguire i loro movimenti. Si graffiavano, zampilli di sangue e sudore uscivano insieme. L'armatura del nero era strisciata in diversi punti e il bianco sanguinava da piccoli tagli su tutta la superficie del corpo. E poi un baluginio di occhi: entrambi avevano visto qualcosa. Ed entrambi, nello stesso medesimo istante, conficcarono la propria arma, ognuno nella pancia dell'altro. Le lame corte erano a terra. Il leggero stocco aveva trovato una strada attraverso l'armatura rovinata e la lama ricurva non aveva trovato troppe difficoltà a forare il cuoio. Entrambe le punte uscivano dalle schiene. Era una situazione irreale.

Il nero sgranò gli occhi come un felino e sputò sangue sulla faccia dell'altro.

NO!” urlò con quanto più fiato aveva in corpo.

Il bianco aveva lo sguardo un po' assente ma teneva duro. Ogni tanto rigirava la lama nelle viscere del suo nemico, ma quest'ultimo, con un ghigno demoniaco e storto in volto, gli trafiggeva l'anima con lo sguardo. Rivoli di sangue gli uscivano dalle labbra contratte.

Il viso del bianco, davanti a quel demone in forma umana, rattrappì di colpo e non riuscì a sostenere ancora quegli occhi sgranati. Il nero urlò di nuovo

NO!”

ed entrambi si accasciarono per terra come morti. Ma il nero era vivo. Si alzò strappandosi il ferro inanimato dalla pancia, liberando anche il proprio. Si mise le lame nei foderi senza degnare il morto di una sola parola od occhiata. Zoppicando riprese la via da dove era venuto.

Sembrava tutto finito. Quel duello in mezzo ai colpi di catapulta e con persone che si uccidevano tutto intorno era terminato. Avevano scelto quel luogo per non incombere in beghe politiche o sociali. Nessuno avrebbe badato all'ennesimo morto dell'ennesimo conflitto scoppiato per qualche motivo che nessuno ormai ricordava. Avevano espletato il loro diritto di violenza nel teatro massimo della carne e del sangue e tutto era andato bene. Tutto questo pensava il nero arrancando via dalla battaglia. Nessuno gli correva addosso, come nella foresta poco prima. Forse era la sua aura. O forse il forte puzzo di sudore, sangue e qualcos'altro. E intanto, come ogni volta, la pioggia e la neve avevano smesso di cadere. Andava sempre a finire così. L'universo rideva di lui ma a lui non importava. Si preoccupava di sputare sangue. Camminando aveva deciso, soppesando tutte le alternative, che una volta a casa, dopo una bella dormita, poteva pure morire.



Tutti moriremo prima o poi!

Però...

Il Samurai non muore!

Se ha deciso di non morire...

Allora non morirà mai!

Però...

Quando ha deciso di morire...

Allora può farlo in qualunque istante!”

    - Hijikata Toshizo (?)