domenica 29 aprile 2012

Una Ragione per Morire - 01

Una Ragione per Morire

Colonna Sonora: The Way of the Warrior – Hammerfall (2000)



Ci abituammo alle grida di Kiku. Ormai gridava ininterrottamente da più d'un ora. Nonostante i medicamenti, il sakè e tutto il resto la sua sopportazione al dolore era pari a quella di un neonato. Aveva avuto una ferita grossa alla spalla. Colpo d'alabarda da manuale, la lama ricurva d'acciaio gli bucò l'armatura come fosse burro conficcandosi nell'articolazione che sta tra omero e clavicola. Come se non bastasse la lama aveva anche conficcato quel che rimaneva dell'armatura nella ferita, infettandogliela. L'assalto l'avevamo vinto noi, ma per Kiku era come se avessimo perso. Subito dopo la mischia lo trasportammo dal cerusico di campo, un vecchietto stempiato alto come mio figlio (o almeno come quando lo vidi l'ultima volta). Era un tizio di poche parole, si mise subito all'opera facendogli bere una fiasca di sakè per rincretinirlo. Servì a poco... Non servì a niente. Era il primo ferito grave della nostra campagna in Corea. Stava andando assai bene. Eravamo discesi dalla nave solo l'altro ieri e avevamo già sbaragliato il loro esercito tre volte. Ormai eravamo stanchi.

C'era da dire però che eravamo molto meno di loro e stavamo vincendo a causa della nostra bravura e a causa degli archibugi. Quei meravigliosi pezzi di legno che sputavano fuoco come draghi urlanti. Non ringrazieremmo mai abbastanza i missionari Portoghesi per averceli protati. Evviva il Dio cristiano! Un Dio capace di creare questi bei giocattoli! Bastavano due o tre file di uomini con quei giocattoli per fare una carneficina. I loro arcieri non potevano nulla. Un tempo li usavamo anche noi gli arcieri. I samurai della guerra Taira erano arcieri coi controcoglioni. Erano capaci di lanciare tre frecce ogni venti secondi con precisione chirurgica. Qualcuno è rimasto, ma pochi. Gli archibugi hanno una gittata migliore, fanno più male e gli avversari non sanno nemmeno che cazzo siano. Per loro siamo solo diavoli stranieri venuti dal Meifumado. Personalmente non conosco il cinese/coreano ma mi accorsi del loro stupore mentre facevo volteggiare la mia spada come un ubriaco.

Normalmente non si farebbe una cosa del genere su un campo di battaglia, ma ormai avevamo praticamente vinto e mi andava di spaventarli. La voce si sarebbe sparsa e alla prossima battaglia si sarebbero cagati in mano dalla paura.

Ora mi ritrovo ad affilare la mia katana. Molti dei miei compagni danno nomi alle loro armi, io la trovo una cosa da idioti. Certo, la spada del samurai è la sua anima. Altro feticcio, altra cazzata. Sono solo grossi coltelli per affettare gente. Si può dire qualunque cosa sui guerrieri. Che sono filosofi, che sono maestri, che sono poeti... Ho sentito ogni genere di diceria sul principe Yoshitsune o sul suo servo (il mitico!) Benkei Musashibo. Che fossero grandiosi uomini di cultura e altro. Fatto stà che erano guerrieri, erano infanticidi, erano assassini e chissà cos'altro. Ecco perchè la mia spada non ha un nome. L'unico riguardo che le devo è tenerla in buono stato. Non per farla vedere ma, come potete immaginare, non sarebbe una bella cosa se mi si frantumasse nelle mani in battaglia. Così dopo ogni scontro smonto la lama, l'affilo, la pulisco e la lucido. I maestri dicevano che pulendo la spada si pulisse l'anima. Allora perchè mi sento come prima?

Il nostro campo puzzava di fango. Aveva appena piovuto e aveva fatto un bel casino. Molti feriti che stavano all'aperto si sono ritrovati fradici, qualche amico di costituzione docile è morto per le ferite che si sono infettate col fango e io mi ritrovo ad imprecare perchè mi si sono appiccicati i capelli sulla fronte. E' una cosa che non tollero! Senza contare che sentirsi i panni fradici sotto l'armatura è la cosa più sgradevole, ferite e malattie a parte, che mi è mai capitata. Hai l'impressione di stare in acqua perennemente. Ormai ho messo in conto il raffreddore. E' sempre così.

<< Ehi Itto, il pranzo! >>

Mi chiamò qualcuno. Neanche lo guardai.

Finii la manutenzione del fottuto pezzo di ferro, lo rinfoderai e mi diressi al tendone della mensa. Il pranzo, così come lo chiamava il tizio, era una coppetta di riso in bianco scotto. Sapeva di nulla o forse io avevo la bocca troppo piena di fango per poter capire qualcosa. Lo finii in poco tempo e presi una coppa di sakè. Solo una, non valeva la pena di ubriacarsi, probabilmente sarei morto poco dopo e la morte va affrontata da uomo. Lucido. Il mio maestro mi disse: la morte sorride a tutti, uno non può fare altro che sorriderle di rimando. Il mio maestro sorrise quando lo impiccarono per aver fornicato con la moglie del Daimyo. Non ho mai saputo se era veramente contendo o era una smorfia post-mortem.

Mi diressi alla mia tenda e mi appisolai. Il sonno era prezioso.

[…]

domenica 22 aprile 2012

Odio

Odio

Colonna Sonora: Bullet Ride – In Flames (2005)



Catanzaro, Ore 16.15



Davide decise che era ora. Buttò con noncuranza per terra il libro che stava leggendo e si alzò con aria assonnata. Aspettava questo momento da circa una settimana. In realtà l'aveva pianificato per ben sette anni della sua vita. Per ben sette anni l'aveva sognato, lo aveva immaginato. Per sette anni aveva sofferto pregustando quel momento. Sentiva il sangue ribollire, l'adrenalina entrava in circolo al solo pensiero di quello che stava per accadere, quasi sapesse.

La vendetta è un piatto che va mangiato freddo.

Lo aveva detto un antico. Davide non sapeva di preciso chi fosse, ma sapeva che era un grand'uomo. Doveva esserlo. Aveva sempre avuto un gusto particolare per le massime universali. Amava conoscerle, ascoltarle e provare a metterle in pratica. Si sentiva bene. Non ricordava neanche più come era successo tutto ma non importava molto. Aveva bruciato tutto in nome di quell'odio, oramai non rimaneva più nulla. Ma Davide lo aveva fatto contento, lo aveva fatto con coscienza. Quel figlio di una gran puttana... Pensava ininterrottamente da quasi dieci minuti. Una frase ripetuta praticamente all'infinito. Una frase che doveva dargli la forza che gli serviva per avverare quello che ormai era diventato un sogno.

L'appuntamento era stato precedentemente fissato per le 17.00 in punto in un vicoletto che era situato in via A. Turco. Era inverno, a quell'ora sarebbe stato sicuramente buio. E questo era importante. Molto importante. Quel bastardo doveva pagare. Quel luogo sarebbe stata una tomba perfetta per quel coglione. In realtà non meritava neanche quello, ma ci si deve accontentare di tanto in tanto. Si, era ora.

Davide chiuse il rubinetto e si asciugò la faccia. Pochi secondi dopo era in camera da letto. Si vestiva per il gran momento. Scelse una maglietta a maniche lunghe nera, completamente; senza qualsiasi simbolo. Nero come la notte. Mise i suoi jeans più scuri e si allacciò gli anfibi. Restò un attimo a fissare il soffitto e a cercare di intravederci qualcosa. Che io abbia paura? Si scoprì a pensare. Probabile. Quando una cosa si avvicina ci si spaventa e quando arriva una cosa tanto attesa l'effetto è centuplicato. Tirò un pugno al muro vicino poi si alzò.

Si diresse nel soggiorno e aprì un cassetto. Prese Goldie. Se la rigirò tra le mani, estasiato. Ogni volta guardarla era come la prima volta. Colore argento lucido. Era splendida. Con quella in pugno si sentiva Dio. Se la mise nei pantaloni. Goldie era la sua Smith & Wesson modello 1911. L'aveva comprata una settimana prima da un'armaiolo situato davanti al teatro che stava lì vicino. L'aveva presa solamente per il suo aspetto, era bellissima. Come e più d'una donna. Era un gioiellino che poteva far saltare in aria, letteralmente, il cervello di un essere vivente, se si sparava dalla distanza giusta. L'aveva provata con dei barattoli in campagna e si sentiva sicuro nell'utilizzarla anche se di mira faceva un po' schifo. Tuttavia, per quello che gli serviva, andava più che bene.

Mise il giubbotto di pelle e mise la pistola nella tasca destra, poi prese le chiavi e uscì di casa. Il cielo era coperto di nubi ma non stava piovendo. Era d'un colore bianco sporco. Davide accellerò il passo. Si fece tutto il corso a piedi, passò vicino a P.zza Matteotti e imboccò la sua via. Lui era lì ad attenderlo.

Davide ebbe un tuffo al cuore. Quello stronzo stava fumando una sigaretta. Appena lo vide accennò un saluto con la mano libera.

Com'era iniziato tutto?

I ricordi erano ormai vaghi,. Davide aveva diciotto anni, Marco ne aveva ventiquattro. Si erano conosciuti quell'estate stessa e avevano legato, erano simili. Poi era accaduto quello che era accaduto e da quel momento avevano litigato in modo serio e i rapporti non erano mai tornati come prima, anche se ogni tanto si sentivano. Davide qualche volta l'aveva chiamato nei momenti di noia. Voleva preparare il campo.

La decisione di chiudere i conti era dettata dal fatto che Davide stava bruciando. Il rancore verso quell'uomo era tale che si sentiva come avvampare. Davide aveva coltivato quel sentimento a lungo. Si sentiva come una falena che, attratta dalla bellezza del fuoco, ci si scagliava contro. Ma evidentemente quel fuoco lo aveva rivitalizzato, invece di bruciarlo. Almeno per il primo momento.

Aveva chiamato Marco la settimana prima fissando quell'appuntamento. Per vedersi, chiarire le cose, salutarsi. Stronzate. Era tutto un cumulo di stronzate. Ma era stato convincente. Marco non s'era accorto di nulla, o almeno così pensava.

Davide mise le mani in tasca.

<< Quanto tempo... >> Così esordì Marco.

<< Già, tanto. Come va? >>

<< Non c'è male. L'università mi sta rompendo i coglioni, ma si tira avanti. >>

<< Sono felice per te... Che mi dici di nuovo? >>

<< Un cazzo. Quella puttana m'ha mollato. >>

<< Oh mi dispiace... >> Disse Davide con un'amara punta di sarcasmo. Gli sorrise in faccia. Marco se ne accorse.

<< Beh? Che cazzo ti ridi? Ancora quella storia? >>

<< No è che... >> Prese fiato. Nella sua mente andò alla ricerca delle parole giuste. Le parole che aveva ripetuto tutto quel tempo. Il soggetto di quella sega mentale infinita. Ora poteva liberare quello che aveva dentro, si era stufato di aspettare. << Non m'è mai andato giù. Lo sai... Siamo anche venuti alle mani se non erro. >>

Nessuna risposta.

<< Me la combinasti davvero grossa. Ma ora è tempo di chiudere questo capitolo infelice. >> Gli porse la mano sinistra sorridendo.

Marco era pensieroso ma accettò la stretta, fu in quel momento che risuonò lo sparo. Poi un grido.

Blam!

Il giubbotto era bucato e fumante. Davide, dopo aver sparato, lo gettò per terra e guardò Marco. Si teneva lo stomaco con entrambe le mani. Il sangue usciva copioso.

<< Dovevo immaginarlo... Perchè? >> C'era rimpianto nella voce.

Davide assaporò il momento. Quello stronzo era alla sua completa mercè. Si sentiva come in paradiso. Fu come sballarsi. Non riusciva a connettere più, tanta era l'euforia. Aveva cercato quel momento così a lungo... Ora era arrivato. E si sentiva felice.

Decise di liberarsi. Di sputare tutto, di chiudere il sipario. In quel preciso momento decise che avrebbe chiuso con quella farsa. I pensieri si affollavano, dovevano uscire. E avrebbe dato loro la libertà.

<< Perchè ti Odio. Ti ho odiato più di quanto abbia amato lei. Molto di più. Non hai idea di quanto ho sognato di vederti così... >> Marco non rispose, Davide proseguì. << Già quando mi combinasti quel bello scherzetto pensai di ammazzarti con le mie mani, come farò tra poco. Ti assicuro che c'ho provato. Ho provato a cercare di spiegare razionalmente il perchè di un rancore così profondo. In realtà non è che mi hai fatto chissà cosa eppure... Non so, era come un bisogno chimico. Come la fame. Io ho bisogno di avere qualcuno da odiare. TUTTI abbiamo bisogno di odiare qualcuno. E' il sentimento primo dell'esistenza. Il conflitto generato dall'odio. Ogni forma di rapporto interpersonale è dettata da un conflitto, di qualsiasi genere... Sia a parole che con una pistola in pugno un conflitto è sempre tale. L'istinto dell'uomo, la sua voglia di prevaricare il prossimo è una cosa reale. Gesù Cristo e tutti quelli come lui sparavano solo un mucchio di stronzate. La pace non esiste. Non è mai esistita. Siamo venuti al mondo scalciando e urlando e questo è il nostro destino... Perciò urla. >>

Sparò un secondo colpo, alla gamba. Marco gridò e sputò sangue, una seconda volta. Davide continuò il monologo.

<< La conclusione a cui sono giunto è che tutti hanno bisogno di qualcuno o qualcosa da odiare. Un obiettivo in cui incanalare le proprie ambizioni, i propri pensieri. L'uomo ha bisogno dell'odio più di qualsiasi altra cosa. Più dell'amicizia, dell'amore... Tutte stronzate. Non sono altro che riflessi capovolti dell'odio. L'amore, come tale, non esiste. La prova di questo sta nella storia. Un popolo non si è mai compattato senza un nemico comune, un obiettivo comune in cui incanalare disprezzo. L'Italia fa finta di essere unita perchè non ha mai avuto un vero serio nemico. Ci siamo sempre fatti la guerra fra di noi. La guerra... Io l'ho capito. Questa è l'unica vera verità universale. Cartesio magari ti direbbe Odio ergo Sum. Io ti dico semplicemente vaffanculo. >>

Non aspettò nemmeno una risposta o qualsiasi cosa. Il terzo sparo. Dritto in mezzo agli occhi.

Davide prese il giubbotto e lasciò quel posto. Arrivò a casa. Si sentiva benissimo. Era come essersi appena fatto un bagno rivitalizzante. Si stava godendo quella beatitudine. Stranamente si sentiva anche eccitato.

Prese una birra, la scolò. Poi cominciò a masturbarsi. A sangue.

venerdì 13 aprile 2012

Scintille

Scintille

Colonna Sonora: Dead Cold Inside – Whispered (2010)



Giappone, anno 1592, Inverno



Si incontrarono sotto i ciliegi, come nelle fiabe.

Però i ciliegi erano spogli. Però aveva appena iniziato a nevicare e i fiocchi sembravano quasi petali di ciliegio. Tutto, in quell'atmosfera surreale, suggeriva qualcosa di bello, qualcosa di gioioso.

Quando i due si incontrarono non dissero nulla e continuarono nel loro silenzio per diverso tempo. Ma l'acciaio no... L'acciaio avrebbe addirittura cantato.

Arrivarono allo stesso momento, quasi come se lo avessero deciso insieme, un tacito accordo. Fatto stà che tutto sembrò normale. Si scrutarono per diverso tempo. Lui la guardò ovunque, senza malizia. Il suo kimono rosso che arrivava fino ai piedi, i guanti colorati, i bastoncini nei capelli, i sandali. E infine la spada, incastonata in quel buffo ombrello scarlatto. Lui doveva uccidere una persona che come arma usava un ombrello.

Era bellissima senza dubbio, ma lui la guardava solo come un muro. Un muro da abbattere.

Lei fece lo stesso. I muscoli di lui guizzavano ovunque, la sua “armatura” (se così si poteva chiamare) si limitava ad una spalliera sul braccio sinistro e qualche pezzo di metallo arruginito. Era massiccio, i capelli fluttuavano al vento. La mano sinistra, come sempre, appoggiata sul fodero della spada. Una classica katana, col fodero che aveva una tacca quasi ad ogni centimetro. Una spada vissuta. Proprio come lui. Una spada.

Della neve si stava depositando su un ramo, presto l'avrebbe rotto col proprio peso. Quello sarebbe stato il segnale. Un altro tacito accordo.

Si misero in posizione. L'uomo arretrò la gamba sinistra e posò la mano destra sull'elsa della spada. Posa per effettuare un attacco iai. Assalto con l'estrazione della spada. Si mise di fianco, per avere un ampio angolo di attacco. Rimase immobile.

Lei non si mosse molto. Arretrò leggermente il piede destro e portò il suo ombrello, tenuto con la mano sinistra, davanti a lei. Posò l'altra mano laddove doveva esserci un'impugnatura in una spada normale. Anche la sua era una posa iai, ma di stampo diverso.

L'adrenalina cominciò a scorrere nei loro corpi. Tutto scivolò via. In lei la vendetta ardeva come un fuoco e la riscaldava. Lui aveva ucciso il suo maestro diverso tempo fa, tanto che ormai aveva scordato il suo volto. L'uomo che le aveva insegnato a vivere, a tirare di spada. L'uomo che amava.

L'uomo, dal canto suo, se ne era fatto una ragione. Era forse la sesta volta volta che si incontravano, era ora di farla finita.

Diventarono un tutt'uno con l'ambiente. Con la neve.

La neve sul ramo cadde con un tonfo e i due scattarono, l'uno verso l'altra. Sollevando neve. Un rumore metallico. Scintille.

Avevano estratto l'arma nello stesso istante provando a colpirsi, ma le lame ricurve si erano incrociate, si erano baciate sprigionando un mare di stelle. L'uomo era eccitato, lei rimaneva impassibile. La visione di quei piccoli fuochi lo faceva stare bene. Gli ricordava cosa voleva dire essere vivo. Combattere.

Lui ritirò la lama e, con un colpetto deciso col piatto, tentò di spostare la lama di lei e contemporaneamente attaccarla al collo. Lei si abbassò come un salice. Riprese equilibrio e sferzò sulla sua gamba. Altre scintille. Altro fuoco, altra vita.

Le spade si allontanarono, ma dopo un attimo si incrociarono di nuovo, ansiose di toccarsi. Lei rinfoderò. Il suo buffo modo di combattere. Rinfoderava sempre dopo ogni attacco. Poi sguainava di nuovo dando alla lama velocità superiore, dato dall'attrito col fodero.

Lui invece si limitava a combattere nel modo tradizionale, con la spada tenuta a due mani. La loro abilità trascendeva quella dei comuni mortali. Erano essi stessi spade.

Lui abbassò la lama pronto ad attaccare, ma lei lo anticipò. Lo attaccò con la lama rinfoderata, lui cercò di schivare ma venne colpito di striscio dall'ombrello che si era appena aperto. Un diversivo. Lei lo sfruttò: liberò la spada e girandosi cercò di fendergli l'ascella, per colpire l'arteria. Lui riuscì a parare, ma arrivò in ritardo e un leggero taglio apparve sul suo braccio. Lei si allontanò subito.

L'uomo andò in guardia alta. Poi cominciò ad avvicinarsi a grandi passi. Uno sguardo tagliente sul volto. Cercò di colpirla alle gambe con un calcio. Venne colpita al ginocchio e quasi perse l'equilibrio, l'aveva colta di sorpresa. Lui abbassò la spada, come un boia decapitava la sua vittima, mirando alla testa. Altre scintille. Lei si allontanò con un balzo riprendendo fiato, ma lui le saltò di nuovo addosso. Come una belva.

Tre fendenti veloci, tre scoppi di fuoco. Un vortice turbinante, neve che si alzava attorno delle due divinità combattenti.

Un sorriso comparve sul seno di lei, un sorriso rosso. Come un fiore sbocciato.

Lei attaccò, diagonale ascendente. La lama di lei scivolò su quella di lui, deviò sulla leggera patina di neve che si era creata. Questa volta le scintille erano poche. Lui l'aveva calcolato. E perciò aveva messo la spada in un'angolazione particolare. Era tutto un causa-effetto. E lui aveva vinto così tanti duelli che aveva perso il conto da tempo.

La lama di lei volò via lontano dal bersaglio, ma quella di lui non mancò. Un affondo allo stomaco, proprio sotto il seno. La lama penetrò fino all'elsa, lei tossì sangue. Lui non perse tempo e la colpì col piede, buttandola a terra e liberando la lama, rossa come un torrente di fuoco.

Lei abbandonò al presa sull'arma e tossì altro sangue. Lui si avvicinò. La guardò con commiserazione, con lo sguardo di chi ne ha viste tante. Talmente tante che lo stupore è solo un ricordo lontano. E sepolto.

Le conficcò la spada nella gola, il sangue sprizzò emettendo un suono. Il flauto della tigre caduta. Colpo calcolato al millimetro.

Lui effettuò un gesto secco con la mano della spada facendo schizzare il sangue, quindi rinfoderò. Lei continuò a suonare.

Quando morì era notte e lui ormai se ne era andato da diverso tempo.

domenica 8 aprile 2012

Polvere.

Polvere.

Colonna Sonora: Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts – Manowar (1992)



Polvere sei e Polvere ritornerai.

    - Genesi (3,19)



Il cavallo di Akilles sbuffò mentre il padrone tirava le redini. Aveva corso per diverso tempo senza mai fermarsi e ora chiedeva pietà. Polvere si levò in aria.

Così come si era levata durante il tragitto. Quasi una piccola tempesta. Permeava chiunque, qualunque vestito, armatura, arma. Qualunque cosa di quella guerra che ormai durava da dieci anni o giù di lì. Se la mattina ti svegliavi senza un granello di qualcosa nelle parti intime ringraziavi il tuo dio per la giornata fortunata.

Era una presenza costante per tutti, anche per le cose.

Akilles si diede un minuto per contemplare cosa aveva di fronte. Troy, la roccaforte di metallo. Quella grandiosa costruzione di acciaio e titanio, adamantio e alluminio era l'obiettivo della guerra. La conquista della più grande fortezza mai concepita dall'umanità. Sembrava indistruttibile, si ergeva superba sfidando gli dei, o qualunque cosa per loro.

Era anche bellissima. I riflessi verdastri del Sole morente le davano un'aria quasi pacifica. A dire il vero la luce verde chiaro del sole dava l'impressione di stare sott'acqua. Come quando stai sul fondo, con degli occhialini, e guardi in alto, verso la superficie. E vedi i raggi che trafiggono lo specchio d'acqua. Basta sostituire l'acqua con l'azoto e l'ossigeno e la superficie con le nuvole e il gioco è fatto.

Akilles smette di contemplare la città metallica. Guarda di fronte a sé. Hector lo aspetta da tanto tempo. Era come se lo ricordava.

La sua armatura in adamantio è imponente. Pettorale a cuneo, spalliere borchiate, polsiere a scaglie. Tutti i pezzi erano di quel colore nerastro. Anche le caviglie erano corazzate, ma con pezzi più leggeri perchè Hector amava il gioco di gambe. La cosa più imponente era però l'elmo. La foggia era classica, ma la cresta era altissima e di tinta rosso fuoco. Sembrava ardere. Nelle sue mani l'immancabile Naginata completamente nera con la lama d'acciaio temprato nel sangue dei nemici presi prigionieri. Quella fantastica arma aveva fatto vittime illustri. E anche Patroclos... Anche lui era caduto.

Quel solo pensiero bastava ad Akilles per perdere il raziocinio e diventare una belva. Ma decise di controllarsi. Contro avversari simili ci voleva tutto il suo cervello e la sua inventiva. Non era il momento della furia. Non ora.

Hector ricambia lo sguardo e con una mano butta via l'elmo liberando i suoi magnifici capelli neri come la pece, e come l'armatura. Akilles prende la parola.

Hai già perso.“ Nessuna risposta. Non ti preoccupi della tua incolumità, sei sconfitto in partenza.” Akilles ride, sputa per terra e scende da cavallo con un tonfo. Ancora polvere, sollevata dal tenue vento che stava cominciando ad alzarsi.

Era la prima volta che provava la sua nuova armatura, forgiata da Vulcano in persona, usando Oro, Acciaio e Adamantio. Il risultato è stato quello di sei magnifici pezzi che avevano il colore del Sole quando era ancora giovane. La corazza pettorale, che copriva anche le spalle, seguiva le curve dei muscoli e vi era incisa sopra una runa di qualche lingua dimenticata. I bracciali erano cilindrici e coprivano anche parte del dorso. Gli schinieri arrivavano poco sotto il ginocchio e davano un'aria massiccia alle gambe snelle dell'eroe. L'elmo aveva corna ricurve, ma non portava la cresta.

Legata sulla schiena aveva la sua Nodachi. La sfoderò con un sibilo. La lama della morte. Così la chiamavano i difensori di Troy. La magnifica lama ricurva era anch'essa in adamantio puro, la guardia era d'oro e l'impugnatura era foderata con un nastro cremisi. Akilles la impugnò a due mani mettendosi di tre quarti rispetto all'avversario.

Hector scattò in avanti liberando un urlo che aveva ben poco d'umano. Un turbinio di corpuscoli piccolissimi mossero insieme a lui in balia del vento. Tentò una stoccata al cuore. Akilles deviò di piatto la lama avversario e cercò il colpo di decapitazione sull'avversario sbilanciato, ma Hector lo vide in anticipo e scivolò sotto la spada avversaria. I due si girarono, l'uno di fronte all'altro.

Ora prese l'iniziativa il guerriero cornuto. Cercò di deviare la lama avversaria con un colpetto secco e di fendere la gamba avanzata dell'avversario con un unico attacco. La prima parte andò a segno, poi Hector fece perno sulla sua asta e, schivando l'attacco, colpì la faccia di Akilles col piede. Il colpito cadde a terra sollevando sottilissima sabbia. Bestemmiò sottovoce e si rialzò appena ne ebbe l'occasione, pronto per difendersi da un colpo discendente diretto alla base del suo elmo.

Sollevò la spada d'istinto e parò con la pura forza, ma perse il confronto e la lama avversaria impattò il suo elmo. La vista gli si annebbiò per un istante, ma poco dopo riprese il controllo. L'arma di Hector sembrava incastrata nel suo elmo. Non perse l'occasione e attaccò con un fendente ascendente diretto alla carotide. L'altro, senza lasciare la presa spostò il collo ma venne ferito al gomito (non coperto dall'armatura) dal colpo di ritorno di Akilles. Dalla ferita fuoriuscì uno schizzo di sangue, ma il guerriero era impassibile. Akilles se ne accorse.

Ti sei drogato?” Chiese alzandosi. L'altro si rimise in guardia prima di rispondere.

PDS.” Disse Hector. La risposta che si aspettava. Pain Depressor System. Un congegno impiantato alla base del cranio che inibiva alcuni nervi e faceva sparire il dolore. In guerra aveva visto centinaia di pazzi furiosi senza un braccio o una gamba combattere con più ardore di normali soldati. Era un sistema inventato proprio a Troy. Akilles lo detestava.

E osi reputarti umano?”

Mi pare tu sia un semidio.”

Si, ma il dolore lo sento e il dolore è ciò che ti fa sentire vivo.” Tornò all'attacco. Stoccata al cuore, l'altro para con l'impugnatura e contrattacca alla spalla. Akilles schiva scivolando in avanti e penetrando di fatto nella difesa nemica. Lo colpisce con una gomitata usando il braccio della spada e continuando il movimento sferza la gola scoperta del guerriero di Troy. Taglia l'arteria e fuoriesce una fontana di sangue. Akilles si allontana in guardia.

Hector, dolore o no, comincia a sputare sangue. Riesce ad agitare l'asta altre due volte prima di cadere a terra lentamente e senza vita.

Il vincitore sorride e, con un movimento secco, fa schizzare via il sangue dalla lama. Quindi la rinfodera. Si avvicina al cavallo, ormai riposato, e lo porta vicino al cadavere. Prende una corda che aveva fissato alla sella in precedenza e con essa lega i piedi del morto. L'altro capo lo assicura alle briglie, poi sale in sella e lancia il cavallo al galoppo. Davanti le mura eterne della città di metallo, ridendo e urlando di pura gioia sanguinaria.

Il cadavere impatta di tutto sulla sua strada, sassi, altri cadaveri, armi abbandonate, pezzi di metallo ancora elettrizzati. Solleva polvere e detriti.



[…]



Pochi giorni dopo l'armata assediante è pronta a lanciare l'attacco decisivo alla roccaforte. Tutti pregano, tutti si armano. Nessuno è escluso. Si unisce alle file anche qualche ferito. L'esercito in marcia è preda di una tempesta, ma non si tratta di acqua. Tutti i soldati a quella vista chinano il capo e continuano a marciare.