domenica 8 dicembre 2013

Scarecrown, Parte Terza

Scarecrown, Parte Terza

Rip their flesh
Burn their hearts
Stab them in the eyes
Rape their women as they cry
Kill their servants
Burn their homes
Till there's no blood left to spill
Hail and Kill
Power and dominion are taken by the will
By divine right hail and kill.”

    - Manowar

Roberto era una persona con problemi. Era ossessionato. In tutti i sensi. E da tante cose. Probabilmente era una persona instabile emotivamente e lui lo sapeva. Nessuno sapeva come passava le sue giornate né cosa faceva. Si faceva vedere solo alle prove e manifestava strani comportamenti, anche se non dannosi. Soffriva di incubi. Incubi terrificanti che lo facevano svegliare urlante nel cuore della notte e non gli permettevano un sonno ristoratore. Solo la luce solare poneva fine ai suoi tormenti. Per questo appariva emaciato e con grosse occhiaie. Ed era solo l'inizio... Era sempre schivato da tutti a causa del suo pessimo odore e dalla sua “brutta persona”. La tipica persona contro cui i genitori, quando sei piccolo, ti mettono in guardia. Magro come un chiodo e trasandato, ecco come si mostrava al mondo. Si era unito al gruppo avendo semplicemente letto l'annuncio sul giornale. Aveva detto che faceva per lui.

Nel suo sguardo trovavi sempre paura o quantomento inquietudine. Sembravava oppresso da tutti i mali del mondo. Amava definirsi come una persona che porta un masso sempre più grande ogni giorno che passa. E questo nelle pochissime volte che parlava. Si trovava a suo agio solo nella sala prove, come se quel postribolo schifoso e sporco fosse un rifugio sicuro o un utero (non materno) protettivo. Gli altri membri del gruppo pensavano che quando suonava appariva posseduto, come se fosse entrato in uno stato di trance estatica o qualcosa del genere, nessuno ne sapeva molto sull'argomento ma molti dicevano che sarebbe stato un argomento di un prossimo concept album. Roberto entrava nella sala e sembrava uno zombie, aveva la tachicardia e la faccia di uno che aveva schivato l'inferno, poi imbracciava il basso e diventava lo sciamano del nero acciaio urlante, uno sciamano muto e con la testa sempre china ma che trasmetteva energie da vendere.

Un giorno Roberto arrivò in sala portando dei fogli scritti. Raoul diede loro un'occhiata. Presentavano cancellature, sovrascritture, scarabocchi e, pareva, tracce di liquido rosso. Si capiva poco ma con un po' di sforzo le frasi prendevano forma. Raoul provò a leggere e sottopose il tutto agli altri. Poi, pochissimi minuti dopo, Roberto prese la parola e chiese a Raoul di cantarla solo con l'arrangiamento del basso, improvvisando e provando a dargli l'impronta che Roberto pensava fosse giusta. Prepararono l'equipaggiamento ma Raoul fermò tutto. Ebbe come un'intuizione e implorò Roberto di dare istruzioni a tutti riguardo le parti di ognuno.

<< La prima esecuzione non può essere sprecata così, proviamola tutti insieme. >> Ci riuscirono solo tre giorni dopo. Alle successive prove.

Roberto arrivò con la sua andatura da nonmorto come sempre e si preparò a suonare, come tutti. Raoul prese il microfono e si schiarì la voce. Si sentiva entusiasta e anche un po' preoccupato, era davvero ottimo materiale. E iniziò la performance.

**

Ne uscirono tutti esausti e cambiati. Il sudore imperlava la fronte di ognuno e la ragazza del chitarrista, presente come sempre, sembrò perdere i sensi. Tutti si sederono.

<< E' stato allucinante, ha un nome? >> Qualcuno chiese.

<< L'ho scritta senza pensare al titolo. >>

<< Di cosa parla? >>

<< Di me e di tutti voi. Di tutto. >>

<< La chiamiamo Scarecrown, come il nostro gruppo. Che ne dite? >> Tutti assentirono.

<< Perchè Markus è dentro di noi. >> Assentì Roberto.

E la discussione finì lì. Da quel momento Roberto divenne il principale fautore dei testi. In realtà, a differenza di molti gruppi in cui la stesura dei testi era solo di alcuni membri, tutti facevano qualcosa e partecipavano alla creazione. Quello fu l'unico caso in cui la canzone fu scritta da uno solo del gruppo. Sarebbe finita nel loro primo cd. Poi tutti si salutarono, rinfrancati dalla nuova esperienza catartica. Roberto se ne andò per ultimo come sempre. Era di nuovo ora di tornare nel suo inferno personale fatto di incubi, desideri repressi e altro. Uscì dalla sala, situata sotto un cinema abbandonato, e si avviò alla fermata del bus. Lo vide partire per andare via e non disse nulla, come se fosse abituato. Subito si diresse a casa immergendosi nella città oscura. Alberi, viali, case in cemento e una chiesa diroccata davanti a lui sembravano il suo benvenuto, il suo assaggio di dolore prima del dolore vero.

Blood and death are waiting like a raven in the sky
I was born to die
Hear me while I live
As I look into your eyes
None shall hear a lie
Power and dominion are taken by the will
By divine right hail and kill.”

- Manowar


Passavano poche macchine mentre camminava per il viale alberato. Grandi strade correvano alla sua sinistra, immergendosi in un orizzonte lontanissimo. Notte da lupi o da cani, pensava. Lui, nel suo chiodo, e il suo basso nella custodia, come un cavaliere errante (ovviamente senza destriero) e la sua spada. Provava a camminare fiero ma tremava per il freddo. Incrociava sempre senzatetto. Molti avevano cartelli o supplicavano. L'unico a cui diede soldi stava suonando un violino che pareva aver molti più anni del nonno di Roberto. Solidarietà fra musicisti? E continuava a camminare, la strada di casa era lontana e lui era quasi contento di aver perso il mezzo pubblico. E intanto ripensava a poco prima.

Mi chiamo Markus, canticchiava nella sua mente. Sono nato in un giorno di pioggia, strappato da un utero infernale a cui non voglio tornare e gettato in un mondo di violenza e dolore. Le auto passavano e cercava il rimbombo della batteria nei suoi passi, la luna lo guardava da dietro le nuvole deboli. Gli occhi gli prudevano. Fin dalla prima infanzia ho conosciuto solo sangue e mani sbucciate. Nasi rotti e stomaci brontolanti. Era un mondo di miseria in cui solo chi era più forte o più dotato o succhiava più cazzi riusciva a fare quello che voleva. Una lunga notte davanti a lui e il pensiero che le prove sarebbero state solo due giorni più avanti. Due giorni infiniti in una “prigione” oscura. L'aveva scelta lui? Non voleva ricordarlo.

Risse per il pane, ho cavato un occhio a otto anni e avevo gonfiato di botte una ragazzina a sei perchè mi aveva rubato le scarpe. Ho ucciso un cane per mangiarlo quando avevo nove anni e a dieci mi sentivo già pronto per impugnare una spada. Il trono del terrore. Faceva freddo nei suoi ricordi. Un freddo impercettibile che faceva venire lacrime ghiacciate agli occhi. Si sentiva poco a suo agio, dritto con la schiena e il petto in fuori, come se temesse di dover combattere con qualcuno. Voleva perdersi, ritrovarsi dall'altra parte del mondo. Era quasi arrivato a metà. 'Uccidete in nome del nostro dio e del vostro signore e tutte le porte vi saranno aperte. In questa selva oscura l'unica cosa che vi può salvare è l'acciaio. Il metallico stridio del grigi metallo sulla carne urlante. Siete soldati. E siete morti.' Il mio primo giorno di leva andò via così. Poi venne la guerra.

Una guerra come tante, combattuta da persone che non avevano ben chiari i motivi che li portavano a morire. Uccisi molte persone nella mia prima battaglia, molti erano vecchi. Dall'altra parte della strada una donna, forse una puttana, camminava e lo guardava con strani occhi. Scelgo quella con gli occhi verdi, la stordisco colpendola con l'impugnatura della spada, mi cade ai piedi gorgogliante. Godi puttana, sei la mia prima vergine. Nel suo delirio allucinato vide se stesso passare la strada e imbracciare il basso come un bastone. Vide se stesso colpire quella donna sul naso e violarla ancora incosciente. Questa è la mia vita ora. Forse mi piace. Poi si scosse, non era successo nulla. Lui era fermo, con un'erezione visibile e gli occhi allucinati. Forse no, ma è quella che ho scelto. Una vita per il trono del terrore.

Uccidere era bello, era l'unica cosa che mi distoglieva dal mio dolore. E tutti sanno che non c'è modo migliore per guarire dal proprio male che dare altro male ad un altro. Amava suonare Roberto, evadeva. Aveva fatto molti errori nella sua vita e non era mai stato contento della sua situazione. Guardava gli altri sempre con desiderio. Voleva lasciare la sua pelle come un serpente ed entrare negli altri. Morii in un giorno di pioggia e un saggio contadino usò il mio cadavere ancora in decomposizione, con tanto di armatura e spada come spaventapasseri. Poi di lì, in un giorno di pioggia, passò uno stregone ubriaco che decise di farmi rivivere come morto ambulante. Morire e ricominciare a vivere una vita nuova, magari migliore. Sicuramente diversa. Un altro masso e un'altra motivazione di vita.

Il mio nuovo utero non aveva nulla di infernale e io mi sentivo diverso. Ero composto di stracci e vestiti vecchi tenuti insieme dal solido acciaio della mia armatura, la spada arrugginita. Stracci di persone che avrei amato e che avrei voluto essere. Io come moltitudine, la mia personalità scomparsa. Solo il terrore era rimasto, ma era riservato agli altri. Ormai era arrivato, prese le chiavi e aprì il portone. Poi le scale. Le vie buie gli avevano fatto credere che un cambiamento fosse possibile, come ogni sera dopo le prove. Guardò il suo basso nella custodia con una lacrima. La spada nelle mie mani cercherà altro sangue e soprattutto quello del mio creatore. Perchè ho bisogno di uno scopo e questo mi sembra nobile. Il trono del terrore, ecco cosa è rimasto. Terrore e odio. Quell'odio che brucia le interiora.

Roberto voleva uccidere un sacco di persone ma non lo faceva. Si chiedeva spesso il perchè. Girò la chiave entrando in casa. L'inferno si apriva a lui e la sua testa non riusciva a non pensare che ad una cosa: Il mio nome è Markus... E piangeva.



Now I bring salvation, punishment and pain,

The Hammer of Hate is our Fate.

    - Manowar

domenica 11 agosto 2013

Scarecrown, Parte Seconda

Scarecrown, Parte Seconda



Un uomo che non è passato attraverso l'inferno delle sue passioni non le ha superate.”

    - Carl Gustav Jung



Raoul spense il televisore con noncuranza e rimase al buio. Era notte fonda ma dormire era l'ultima cosa che voleva fare. L'adrenalina che aveva in corpo glielo impediva. Domani era il grande giorno, il concerto programmato da molto tempo. Inoltre era preso da tutti i suoi innumerevoli problemi, riposare gli sembrava impossibile. Il televisore lo aveva stancato perciò, per abbattere la noia, ebbe la magnifica idea di mettere nel cd il loro primo lavoro. Ormai erano passati due anni da quel fatidico appuntamento (“ci vedremo tra un anno”) e avevano due album all'attivo. Un bel risultato per il poco tempo avuto. Il primo album l'avevano intitolato Hate, Hate, Hate ed era quello che sembrava. Dieci tracce per un totale di un'ora circa. Un campionario di canzoni che avevano bersagli: a turno tutti i componenti della band avevano messo le loro idee.

Ogni canzone aveva un qualcosa da odiare: politici, società, problemi vari. Era un album sfogo. Solo una canzone usciva dal recinto. Era l'omonima del gruppo. Qualcuno aveva suggerito di intitolare l'album in quel modo, come i grandi del passato ma Raoul si era opposto, sia perché odiava gli album con nomi uguali alle band e sia perché gli dava fastidio intitolare un lavoro col nome di una sola canzone. Gli sembrava che le altre tracce fossero meno importanti. La canzone parlava di quella che poi sarebbe diventata la mascotte del gruppo: il cavaliere-spaventapasseri Markus. Una semplice storiella fantastico-orrifica su un cavaliere che viene ucciso e fatto rinascere sotto forma di uno spaventapasseri per una ragione futile e che intraprende un viaggio per vendicarsi su chi l'aveva fatto. Markus era apparso su tutte e due le copertine.

Quando partì la prima canzone Raoul sentì un calore provenire dal basso ventre. Quasi non riusciva a credere di essere finito nell'impianto stereo. Era un sogno che s'avverava e aveva paura di svegliarsi da un momento all'altro. Mise tutta la stanza al buio e stette ad ascoltare tutto senza muovere un solo muscolo, assorto nei suoi pensieri e nel passato. Un fiume di ricordi lo investì: le sessioni in sala prove, le sbronze in cerca di ispirazione e il difficile periodo che aveva passato (e che non era del tutto finito). Era tutto finito in quel crogiolo di disperazione ed epicità. Non avevano venduto moltissimo ma non era fregato a nessuno. Quando riesci ad inserire te stesso in qualcosa ed essere contento del risultato è tutto secondario. Paradossalmente il cd lo aveva calmato. Appena finito lo ripose nella custodia e decise di andare a nanna. Nello stato di dormiveglia vide Markus muoversi in un paesaggio infuocato. Prima di cadere ricordò che era la copertina di quello che aveva appena ascoltato.

**

Gli strumenti erano tutti apposto. I cavi andavano tutti nel loro luogo adatto e, non si sa ancora come, ma il volume di tutto era perfetto. Di concerti ne avevano fatti tanti ma non era mai successo che fosse tutto così perfetto e che avessero trovato la situazione ottimale in così poco tempo. Avevano ripassato la scaletta dell'evento un milione di volte. Il secondo album era un lavoro concettuale, con una storia. E avevano pensato di rendere concettuale anche il concerto proponendo tutto il nuovo lavoro in ordine e con un minimo di atmosfera. Raoul si girò verso gli altri componenti. Erano tutti sudati ma pronti. Tutti sorridenti. Poi si girò a vedere la folla, aspettavano trepidanti. L'alito si condensava: erano tutti all'aperto in quella fredda serata di inverno e aspettavano di essere scaldati da quel fuoco immaginario. Il rito stava per iniziare. Raoul diede l'ok e il chitarrista iniziò. Una melodia lenta, ma solenne. Poi, pian piano, partirono tutti gli altri. Era l'intro: Near the Sleeper.

Erano tutti accorsi all'abitazione. Familiari, amici, semplici conoscenti e ovviamente lei. L'amore della sua vita, ma anche altro. Lei era arrivata per ultima, come ci si sarebbe aspettato. Era vestita in modo sgargiante, in contrasto con tutti gli altri, semplici contadini e operai. Tutti a guardare il morto, vestito in armatura completa e con la spada ricurva tenuta fra le mani. Sembrava sorridere. Si unirono tutti in preghiera spinti dalla donna. Avevano tutti freddo e speravano che il rito della donna potesse scaldarli. Lei li osservava e piangeva. Ma era un pianto senza lacrime, non doveva far vedere che anche lei era addolorata. Doveva solo lavorare. Tutti sapevano ma facevano finta di non vedere. Inspirò una grande boccata d'aria pronta ad iniziare. Gli altri la osservavano trepidanti, l'ansia era palpabile. E lei iniziò a parlare, una voce gutturale.

Il cantante aveva iniziato a cantare. Con una voce gutturale, graffiante, ma calma. Non era ancora aggressiva, era un preludio alla tempesta. Con l'inizio della parte cantata terminava l'intro e iniziava la prima vera canzone: Dark Woods. Gli spettatori erano in silenzio, ma sembravano pregare. Pendevano dalle sue labbra. Poi la calma finì ed iniziò la vera canzone.

<< Si trova in una selva oscura, in inverno. La neve cade e il vento è impetuoso, riesce a stare a stento in piedi. Si guarda e vede che ha l'armatura completa e ai fianchi le sue due spade, simbolo della sua casta. Non è ferito, ma ha paura. Paura dell'ignoto. Non sa cosa fare né dove andare. Si guarda intorno disperato e la mano va, senza alcun controllo, all'impugnatura della spada. Lo strumento da cui dipendeva la sua vita. >> Lei, la sciamana, si ferma. I suoi occhi diventano vitrei, più di quanto non lo siano già e le pupille scompaiono mostrando il bianco spettrale della morte. Tutti si prendono per mano. Tutti volevano contatto umano, qualcuno piangeva in silenzio. Durante la paura Raoul vide che il pogo era iniziato, nonostante fosse solo l'inizio. Sembravano tutti emozionati. Prima di continuare col testo diede un'occhiata alla luna, era coperta dalle nuvole.

<< Davanti a lui si staglia una tigre, lui non capisce. Gli torna in mente che era lo stemma del suo casato, ma nonostante ciò sfodera la spada, preso dall'istinto. Capisce che non è qui per farsi accarezzare. I due snudano gli artigli e si squadrano. Si lanciano uno sull'altro. L'uomo ferisce la bestia agli occhi, accecandola per sempre. La bestia urla e se ne va ringhiando. L'uomo aspetta e dagli alberi viene fuori uno spiritello, dal colore rosso vivo. Un colore che emerge da quel biancore generale. Lo sta osservando, è un volto umano. >> La donna mette una mano sui suoi occhi sanguinanti ma nessuno si muove. E' sempre stata cieca, condizione che l'ha obbligata, fin da piccola, a quella vita. Cionondimeno i suoi occhi sembrano squarciati. Nessuno parla, ma si stringono più forte. << L'uomo riconosce il volto e prova ad avvicinarvisi, a toccarlo. Ma è incorporeo. Lui cade in ginocchio. 'Seguimi!' >> Dopo aver detto questo la strega si riposa un attimo.

Il Follow Me gutturale chiude la seconda canzone. Raoul non si rende conto del tempo che passa e non ricorda più nulla. Lui è la sciamana in quel momento, non esiste altro. Anche i suoi compagni sembrano assorti in quel rituale che ricorda tanto l'antico Giappone. Ad ogni modo lo spettacolo è appena iniziato. Gli strumenti non si fermano, lui riprende fiato e qualcuno gli passa una birra ghiacciata. La beve tutta d'un sorso, con la gola che brucia come l'inferno. Riprende il microfono e ricomincia. Vomita tutto l'odio che ha in corpo. Terzo pezzo: Burning Blood. La sciamana, dopo aver bevuto un po' d'acqua che le era stata offerta, ricomincia a narrare. Dice di condurre il morto attraverso quel posto desolato, verso la salvezza. Lui la segue fidandosi. Il suo viaggio è appena iniziato ed è lunghissimo. Lui vorrebbe stringerla a sé e perdersi nei ricordi. Ma il fuoco gli impone di proseguire. Un sentiero di fuoco si staglia davanti a lui. Il guerriero lo imbocca.

<< E' un'ambientazione evanescente e dai contorni non meglio definiti. Dopo pochi metri incontra il primo demone, che vuole sbarrargli la strada. Un essere informe e bellissimo allo stesso tempo. Impugna una mazza ferrata. Lo staglia e si butta all'attacco. Il guerriero sfodera la spada e in un unico colpo lo decapita. Il sangue gli schizza sugli occhi. Ha reagito d'istinto, senza pensare, ancora scosso da tutto. L'uomo si accascia per un minuto, cercando di metabolizzare quanto stava vedendo. Continuo a guidarlo. Appaiono altri demoni. Esseri giganti dalla pelle verde armati d'ascia, piccoli omini barbuti con verghe sputafuoco. Lui li uccide tutti senza pietà e la sua armatura diviene rossa. Viene ferito, ma non si ferma. Può un morto morire di nuovo? Lui sembra aver capito. Poi vede delle frecce che gli cadono intorno, si nasconde tra gli alberi e tra le fronde vede una donna bellissima dalle orecchie a punta bersagliarlo con un arco.

Nella sua vita ha avuto occasione di uccidere delle donne e l'ha sempre fatto senza pensarci troppo. Uccideva uomini per lavoro, le vita delle donne aveva lo stesso valore. Lui si avvicina al ramo e lo taglia di netto, la donna cade per terra e cerca di rialzarsi con dei pugnali corti in mano. Però, prima, che possa fare alcunché lui le trapassa la gola con la spada. Il sangue lo acceca e si pulisce gli occhi con la neve. Continua seguendomi, verso una landa di fuoco. Lì la neve continuava a cadere, incurante. >> Lei smette di parlare e guarda fuori, nevicava. La prima parte della canzone era conclusa e Raoul si prende una pausa, stava per arrivare lo spannung. Piccoli fiocchi di neve cadevano davanti a lui, tra la folla che aveva interrotto i movimenti per un po'. Gli strumenti gridavano e sembravano rompersi. Tutti sudavano nonostante la neve. Poi si ferma tutto per un secondo. Un secondo infinito. Poi, alla massima velocità, gli strumenti iniziano a gridare.

<< Davanti al guerriero si staglia un vero esercito. Esseri di tutte le fogge e dimensioni, amici di infanzia morti, donne che aveva amato, genitori e conoscenti. Lui doveva abbatterli tutti, doveva lasciare andare la sua vecchia vita in favore della nuova. Sfodera l'altra spada e si butta sul nemico mulinando le spade come una divinità guerriera. E lo fa piangendo. La sua volontà era nulla in confronto alla situazione. Sembrava aver capito. E lo fa urlando. >> Raoul abbandonò il suo solito growl in favore di uno scream rabbioso che risuonò per diversi secondi. La neve cadeva sulle sue guance e agli occhi degli altri sembrava piangere. La battaglia era di fronte a lui. Una confusione di corpi informe che si cristallizza in due schieramenti, pronti a sfondarsi uno sull'altro. Molti finiscono a terra, chiome sventolano nella neve. La performance di Raoul dura diversi secondi prima di spegnersi. Poi si butta della birra addosso per scuotersi. Lei ha paura di tutto ciò ma non lo da a vedere, prova a bere ma l'acqua le cade addosso. Gorgoglia qualcosa.

<< Non c'è distinzione. Lui è un macellaio senza volto. Crea morte intorno a lui, ma i corpi feriti svaniscono... Sono forse illusioni? Anche se lo fossero lui le percepisce reali. Reali come un ferro rovente su una ferita. Viene colpito molte volte ma non arretra. Sa che è solo un test, una prova, un'ordalia sanguinaria. Non coglie il senso di tutto ma si fida ciecamente del fuoco. Di fronte a lui non c'è più niente, ma lui è sporco di sangue. Proprio e anche di altri. Allunga una mano verso di lei. Il fuoco si avvicina d'istinto ma è tutto inutile. Rinfodera la spada e si prepara al continuo del viaggio. >> Lei urla di dolore. E con l'ultimo grido si chiude la terza canzone, quella più lunga. Senza fermarsi tutti continuano a spintonarsi. Gli altri componenti fanno partire la quarta canzone: The Lone Wanderer, or the Vision of Death. Raoul si sente solo nonostante il casino. E pensa che in realtà siamo tutti soli, soli che vogliamo illuderci del contrario. << Lo guido attraverso un ghiacciaio impervio, attraverso il deserto, nell'acqua ghiacciata, attraverso il fuoco... >> Pausa.

<< L'ordalia non era solo fisica, ma anche mentale. Una prova di resistenza della psiche. E' la sua prova, io ero solo un segnale. Mi guarda e cerca di raggiungermi ma ero sempre più in là. Doveva superare tutto da solo o sarebbe stato tutto inutile. La sua paura è palpabile: sapeva che non mi avrebbe mai più rivisto e non so come, né perché, lui sapeva che io provavo lo stesso, anche se non mi era permesso di fare nulla. Poi all'orizzonte si staglia una città, la fine di tutto. Il mio cuore si riempie di tristezza. Voglio toccarlo. Lui, disperato, accetta anche se sa che potrebbe essere fatale a entrambi. Entrambi vacilliamo. Forse è la prova di entrambi. Io gli sfioro la mano e... >> I contadini osservano la sciamana urlare per il dolore. Dura pochi secondi. La visione della morte la terrorizza nonostante il suo “mestiere”. Li ha tutti in mano Raoul. E' felice, si sente importante. Scola dell'altra birra e lancia la bottiglia sul palco. Qualcuno la afferra. La quinta e penultima canzone inizia con un assolo di basso: Do with your Hands. Una canzone abbastanza corta rispetto alle altre, ma importantissima.

<< Manca solo una prova. Davanti alla città vede uno spiazzo. Io scompaio per un po' e lui sembra impazzire, poi ricompaio sotto forma di tigre cieca. Mi riconosce e capisce. Si addolora per me e sorride. Lui sa. Sfodera la spada e si mette in posizione, questa volta non mi risparmierà. Sa che deve liberarsi di tutto prima di entrare nella necropoli. La sua spada si muove veloce e sento di nuovo la morte, ma per meno tempo. Prima di dissolvermi ho il tempo di parlargli. >> Per la prima e ultima volta Raoul sceglie un cantato pulito, con una voce calda. Uno sfoggio di normalità per una situazione che di normale non ha nulla. Solo una parola.

<< 'Grazie.' Gli dico. Sinceramente. Per tutto quanto. Per avermi accettata e amata nonostante le nostre condizioni. Per avermi fatto provare un po' di umanità anche se mi è sempre stato detto che non lo sono. Il destino delle ragazze cieche è uno solo e non contempla felicità. Il mio ringraziamento è ben poca cosa rispetto a tutto, ma sono contenta e non ho rimpianti. Lui sorride e mi vede mentre scompaio. La mia ultima visione è lui che fronteggia i due guardiani del cancello della necropoli. La sua spada è talmente veloce che non riesco a vederla. La sua anima si è affilata come la tecnica della sua lama. Non ha più nulla del se stesso di prima. >> Qui si chiude la penultima canzone. L'ultima sarebbe stata l'outro: Gone. Si trattava di un pezzo quasi tutto strumentale. La folla si preparava al gran finale. Gli strumenti dialogano e combattono. Raoul aspetta con trepidazione.

Loro mi guardano e non so cosa dire. Anche se hanno capito che è andato tutto bene. Il mio amato è ormai entrato nel regno dei morti, pronto a ricominciare una vita lì. Non so, ma prima che la visione finisse ho visto dentro di me un essere simile ad uno spaventapasseri armato di spada muoversi in un paesaggio fatto di fiamme. Non mi interrogo, gli dei sono beffardi. Aspettano il mio verdetto e io lo do. Con tutta la rabbia che porto dentro. 'E' andato.' Quella frase, “He's Gone.”, chiude tutto l'album. Raoul lo interpreta col growl più cattivo e gutturale che ha e lo fa pensando a se stesso. Volendo catalizzare tutti i suoi dispiaceri, le sue paure e il suo odio in quell'unico urlo catartico. Dura un minuto e in quel minuto sotto il palco si combatte una battaglia campale. Piano piano Raoul spegne la sua voce insieme agli strumenti. Tempo dopo tutti se ne vanno lasciandola sola e ringraziando gli dei. Poi va via anche lei. Ora che ha finito le lacrime ha terminato il suo lavoro. Raoul scende dal palco con un'espressione catatonica, dentro di lui il vuoto.

domenica 2 giugno 2013

Senza Titolo

 Formwork in the lazy river 180x200 cm open acr

Senza Titolo


Se mi chiedete chi sono, vi rispondo che sono una figura che sta sullo sfondo di un quadro. A guardare. Voi.

Voi coi vostri colletti bianchi, con le vostre borse a tracolla, coi tacchi a punta e gli auricolari alle orecchie. Voi che mi state ignorando con una calma e pace glaciale. Mi state opprimendo. Mi sento rinchiuso in una prigione fatta di inquietudine e caos, senza possibilità di libertà. La vostra stasi, la vostra calma mi sta urlando addosso tutta la sua ipocrisia. Come se qualcuno volesse spaccarmi i timpani suonandomi una tromba vicino l'orecchio, volutamente. Mi state rendendo impossibile tutto. Volevo solo fare questo, emergere. Magari dare il mio contributo a qualcosa, qualsiasi cosa. Lasciare una piccola impronta. Ma l'avete fatta volare via. Mi avete sputato addosso la vostra indifferenza come fosse vomito, anche se voi, sono pronto a scommettere, non ne siete consapevoli. Io... io non so chi sono. E sono stanco di fuggire da questa realtà. Ma io vi conosco bene, voi coi colletti bianchi e le borse a tracolla. Mi avete tolto l'energia, perciò io toglierò qualcosa a voi. Vi toglierò la vostra esistenza. Come voi l'avete tolta a me. E' giusto che se io non posso avere qualcosa, neanche voi possiate. Un uomo disse: la realtà è quella cosa che, anche se smetti di crederci, non svanisce. Si sbagliava. Vi cancellerò e così cancellerò anche me. Chiudo gli occhi. I vostri volti sono già evanescenti, non li vedo più. Una grande luce bianca (Dio?) sta risucchiando tutto. Siete tutti trasparenti sullo sfondo, come me. Tutto si sta decomponendo, ma io ho fretta e con la mia gomma ho già tracciato una linea. Io l'ho iniziata ma continua da solo, poi si ferma. Uno squarcio bianco su una tela. Dallo squarcio esce luce e tutto è bellissimo. La pace vera. Poi si riempie di colore, un blu acceso. NO! Non deve accadere, cancello il terreno ma riprende colore dopo poco. Adesso riesco a vedere i vostri volti. Apro gli occhi. E' tutto là, auto, alberi, borse a tracolla, tacchi a punti. E' svanito tutto con una rapidità disarmante. Qualcuno bagna un bambino con una tubo. Cerco di percepirmi e abbasso lo sguardo. Il colpo di grazia: la mia mano è ancora lì.



lunedì 6 maggio 2013

Rosso

Rosso



Quanto più la sensualità viene negata, tanto più sensuale è il dio a cui si sacrifica la sensualità.”

    - Ludwig Feuerbach



La tela bianca di carta ecologica è davanti a me, intonsa. Se contassi le volte che mi sono messo lì davanti per iniziare a dipingere, penso che arriverei almeno alla dozzina. E tutto questo in pochissimi giorni. E' ormai tantissimo tempo che la mia ispirazione non arriva e, se arriva, lo fa nei momenti sbagliati. Guardo la mia penna a inchiostro plasmico e sospiro. E' una sensazione di assoluta impotenza. Qualcosa che vorrei fuggire come la peste, quando c'era. Non riesco a trovare un soggetto o qualsiasi altra cosa. Ho un bisogno dentro di dipingere, ma non so cosa. E' un desiderio che si suicida, si mangia da solo. Ogni volta, in passato, che avvertivo questa fame d'arte mi mettevo davanti alla tela e tutto usciva da solo, il mio corpo era solo un canale. Ora credo, o sento, che non basta più. Tutto, intorno a me, mi dice di cambiare registro. Di cambiare tutto. Il tempo meteorologico si associa al mio piccolo dolore e fa sparire quel bel sole rosso. Tempo un attimo e scoppia un temporale che ha del terrificante.

Magari avrei potuto trovare un'ispirazione passeggiando fuori... Magari no. C'avevo già provato e con risultati nefasti. Il mio raggio d'azione, perciò, diventava la mia casa. Comincio a camminare per le sale disabitate, completamente a caso. Faccio il giro delle stanze più e più volte e mi fermo davanti alla mia biblioteca. Mi sorge l'idea di trovare quello che cerco nella carta stampata ma il mio cervello dice di no, vuole qualcosa di più immediato e, soprattutto, vuole pensare poco. Mi allontano da lì e, in un lampo di follia, decido di piazzarmi davanti al demone dei demoni: il mio televisore. Durante gli anni questo piccolo congegno è stato vituperato per qualsiasi cosa, ma ovviamente ce l'hanno ancora tutti. A me è stato regalato, ma non posso negare di averlo usato un po'. Non ne sono un fanatico ma ogni tanto mi piace guardare qualcosa. Come oggi.

Un rumore metallico mi da il benvenuto. Smanetto coi comandi che ho incorporato nel mio divano di pelle e comincio a fare zapping. E' la maledizione dei canali, ne hai troppi e non trovi niente. Dopo un buon quarto d'ora di questa attività decido di fermarmi e guardo un programma a quiz. Domande banali e concorrenti simpatici ma gli sbadigli arrivano. Riesco a resistere per un'oretta. Poi parte la pubblicità e faccio per andarmene. Uno spot cattura la mia attenzione e mi fermo un attimo a guardarlo. Una scena d'altri tempi: un castello medioevale, due persone in costumi molto succinti (quasi nudi), danzano in maniera sensuale. Si toccano. Un'intuizione mi suggerisce qualcosa ormai dimenticato di questi tempi: sembra quasi che i due stiano per accoppiarsi. Un'attività considerata obsoleta ormai da molti anni. Da quando l'uomo, tramite complessi processi riguardanti le cellule staminali, aveva raggiunto qualcosa di molto simile all'immortalità.

Le cose, da quel momento in poi, erano andate sempre meglio e un generale benessere si era diffuso in varie località del mondo. L'immortalità aveva un prezzo e non tutti potevano permettersela ma chi lo faceva si sentiva rinato. La consapevolezza di non poter morire per cause naturali cambia il tuo modo di pensare. La fretta scompare, il tuo desiderio di procreare non ha più ragion d'essere e lentamente scompare. Nei paesi sviluppati era completamente scomparsa la guerra. Un'ondata di ottimismo senza precedenti nel genere umano. Tutto sembrava possibile. Ovviamente c'era chi non aveva beneficiato di quel calice: emarginati e poveracci. Trattati da animali, ai margini delle città. A me personalmente, quel relativo benessere, aveva dato tanta noia. L'avere tutto è bello per un piccolo periodo di tempo, poi stufa anche quello. A quanto pare, è una cosa solo mia. Sembravano stare tutti bene.

La pubblicità del profumo continua intanto. La danza diventa frenetica e i due quasi cadono per terra, trascinati da qualcosa che non saprei definire. Cala un sipario sulla scena e una voce fuori campo decanta il solito profumo ecologico. Il nome mi rimane impresso in testa: Beati nell'Amore. Come se quell'unguento potesse riportarci indietro nel tempo. La cosa mi rimane impressa ma subito dopo spengo il televisore.

***

Le cose non sono migliorate. La tela è sempre lì e non ho fatto progressi da quel giorno di pioggia. Durante questo tempo ho pensato solo al messaggio di quella pubblicità e soprattutto al passato. Avrei voluto avere un essere umano della generazione precedente per fargli tante domande, sull'amore, sull'intimità. Forse posso scoprirlo da solo... Questa piccola intuizione mi da una strada da seguire. Forse nelle periferie...

***

L'aeromobile sfreccia nei quartieri bassi. Persone diverse, con vestiti diversi. Vedo tanti bambini che corrono. Non sembrano tristi, ma stanchi per il lavoro massacrante che fanno. E dopo poco trovo quello che cerco. Le meretrici. Al giorno d'oggi sono trattate come spauracchio per mandare i bambini a letto. Ai miei occhi appaiono come donne normalissime, un po' emaciate e spesso con lo sguardo spento. Vedendo l'aeromobile si precipitano vicino per cercare di essere chiamate. Evidentemente non era la prima volta che uno dei quartieri alti passava di là. Ne scelgo una a caso dato che non so chi privilegiare. In macchina è silenziosa. Fa si con la testa alle mie richieste. Ogni tanto mette su un'espressione un po' stupita ma acconsente. Arriviamo a casa in un lampo e andiamo nella mia camera da letto. Un letto singolo, dovremmo stare attenti. Le avevo già detto tutto e lei si stava spogliando.

Lei è sopra di me e cambia espressione, non riesco a capire. Le sue mani mi toccano dappertutto. Sento l'alito caldo della sua bocca quando la unisce alla mia. Una sensazione strana, come di fuoco. Sento una sensazione nel basso ventre. Lei continua, quasi mi mangia. Il collo, le gambe, il torso, anche le dita dei piedi. Io rimango immobile ma sento che qualcosa cambia. La sua mano tocca il basso ventre e sgrano gli occhi. Sembra dolore, ma non lo è. E' diverso. Poco dopo mi accorgo che qualcosa muta. Col cambiamento fisico sento come un'euforia e provo l'impulso di unirmi alla sua danza, come i due della pubblicità. Da oggetto divento anche soggetto e lei mi lascia fare. E' stupita, forse non le capita spesso. Capisco delle cose. E mi muovo come un forsennato annullando la mia razionalità. Un non-pensiero. Qualcosa che si muove da sé... Per qualche momento sento d'amarla: quel verbo dimenticato affiora prepotentemente in me. Calore. Nella mia mente noi due bruciamo come una stella...

***

Sono sul letto da solo. Le lenzuola sfatte, lei se n'è andata? Giro per la casa e scopro che è così, sono solo. Mi sento come prima che fosse arrivata. Di nuovo vuoto e per un attimo penso che forse mi sono sognato tutto. Eppure sembrava così reale. I vestiti miei sono per terra ma tutto è rimasto uguale in casa. Mi stendo di nuovo a letto cercando di ripensare a quell'esperienza. Sento un piccolo dolore sul collo, tocco e sento sangue. Questo mi fa sentire meglio: non ho sognato nulla. E' davvero successo qualcosa. Voglio credere di non essermi grattato da solo. Toccando quel sangue mi ritorna in mente qualcosa e un piccolo fiume di ricordi esce dalla mia testa. Sento di nuovo calore sulla faccia insieme ad una sensazione di sporcizia. Decido di farmi una doccia. Mentre mi lavo piccoli particolari mi fanno ripensare alla mia esperienza. Ci penso ma non giungo a nessuna conclusione. Fuori da lì la tela mi aspetta.

Mi piazzo davanti al bianco. Non mi spaventa più ormai. Ho una strada, piccola, ma ne ho una. Regolo la penna a inchiostro plasmico sul rosso e dopo qualche attimo di esitazione la passo sulla carta. Sono leggermente in dubbio: riuscirò a esprimere tutta quella cascata di sensazioni? Il mio corpo come mezzo, per qualcosa di superiore. Voglio credere di si.

venerdì 19 aprile 2013

Belve

Belve

La bocca sollevò dal fiero pasto.“

- Dante Alighieri, Inferno XXXIII

Un uomo si avvicina a quello che sembra il cadavere di un soldato e gli fruga nelle tasche. Ne trae un diario. L'uomo va alle ultime note e comincia a leggerle. Ad alta voce.

Frammento del diario di Marco Rossi.

Il mio naso pizzica. E' stuzzicato dall'odore di carne bruciata. Bistecca, mi viene da pensare. E per un attimo ci credo io stesso anche se so che non è così. I corpi di due uomini e una donna sono a pochi passi da me, tutti con un foro bruciante nella loro divisa militare. Il fumo appesta l'aria ma a me sembra incenso. Prendo un attimo per respirare, per organizzare il cervello e abbandono la posa che ho avuto fino a questo momento: abbasso la pistola. Mi metto eretto e faccio per prendere la borraccia alla mia cintura. Mi accorgo che è vuota. Lancio la bottiglia fuori dalla mia vista e rinfodero la pistola e mi do all'autocommiserazione. Non dovevo ucciderli. Sono esseri umani. Sono come me, Etc. Una marea di seghe mentali mi distoglie dal vero problema. E io lo lascio fare perché per questi pochi atti voglio sentirmi una brava persona, anche se ormai sono una razza in via d'estinzione.

Nella morte non riesco a distinguerli più. Sono solo tre maschere di morte, tre involucri di carne contenenti organi, sostanze chimiche e una gran quantità di liquido rosso. Stanno fermi lì sull'asfalto e si raggrinziscono. Uno dei due è in una pozza di sangue rappreso, forse una ferita precedente o sangue d'altri. La donna non aveva avuto nemmeno il tempo di prendere l'arma. Senza neanche pensare li ho uccisi tutti e tre e la gravità del gesto mi schiaccia al terreno. E' una sensazione martellante di disgusto e follia. Li guardo e vedo me, fra qualche tempo forse. Pietrificato in una maschera d'orrore che maledice il creatore di quello scempio. Non c'è differenza tra noi esseri umani, in vita o in morte.

Mi lascio lo spettacolo alle spalle e continuo a camminare, mano destra sull'arma. Pronto a uccidere ancora e, magari, a trovare quello per cui sono venuto qui dal mio paese. La crisi globale ci aveva spinti tutti uno contro l'altro senza possibilità d'uscita o di soluzione amichevole. Quando si tratta di bisogni primari siamo animali al 100%, nessuno escluso. E questo va un po' schifo. Ti rode dentro. Perché secoli di storia hanno preteso di portarci da tutt'altra parte. E anche perché bastano gli avvenimenti di due anni per mandare tutto a puttane. E continuo a vagare. Nonostante i miei uomini e donne siano morti tutti sono tutt'altro che pronto ad arrendermi. E' un bisogno reale il nostro. L'aria bruciata mi stimola la salivazione e provo un desiderio incredibile di mordere qualcosa, di masticare.

L'ambientazione urbana intorno a me è decadente. Sembra di stare in un monster movie ma con più cadaveri. Alcuni sono mangiucchiati, altri a pezzi. Un odore di sangue appesta l'aria. Sangue e fumo. Il mio stomaco borbotta, ma non è l'unico. Anzi. Ho la bocca impastata, la mascella va su e giù come una fiera. La testa mi porta l'immagine di una succulenta coscia di pollo e questo mi fa soffrire. Poi torno in me e faccio due più due. Mi fermo a pensare e a riorganizzare il cervello. Come posso controllarmi? Nessuno può. Tutti cadono di fronte alla verità e non c'è niente di più vero del cibo. Niente. E per far tacere il resto del corpo affatico i piedi, accelero il passo ed entro in quello che sembra un parco, tutti gli alberi sradicati, l'erba è masticata ma non si vedono pecore. Un lamento mi fa girare la testa.

Una donna si sta avvicinando a me, disarmata. Me ne accorgo poco prima. Mi guarda con occhi confidenti e anche un po' languidi. Non riesco a capire se stia parlando nella mia lingua madre o la lingua di questo posto ma so che riuscirò a comprenderla. E anche questo mi fa paura. Dice di essere incinta e di avere fame (o forse dice che il piccolo ha fame). Sto per risponderle quando mi accorgo dal rilevatore che porto su un occhio, che sta dicendo menzogne. Una scansione del suo corpo a raggi X appare sul mio rilevatore e leggo le sue funzioni vitali. Non c'è un'altra vita in lei e in effetti il ventre le appare normale. Le dico la verità e lei sbianca. Ma si avvicina comunque e mi abbraccia. Prova a baciarmi. La lascio fare perché ho bisogno di quel contatto umano. La sua mano dal mio collo, va alla sua cintura ed anche se non vedo, sento uno scatto metallico: le fermo il polso a pochi centimetri dal mio collo e la spingo. Lei si rialza e urlando, mi si butta addosso col suo machete. La colpisco due volte al torace e cade fumando. 

Le narici si allargano. Decido di scappare da lì prima di cadere in un'altra visione macabra. Corro per dieci minuti buoni completamente senza meta e incappo nel medesimo market. Ne avevo girati decine, tutti ovviamente vuoti. Ricordo, avevo pensato che si fossero mangiati pure le scatole, non solo il cibo. Il rilevatore mi dice che il posto è disabitato. Un bip rassicurante. Quell'aggeggio schifoso costa quando una di queste case eppure non riesce a placare in me un semplice istinto. Mi avvicino all'entrata e decido di fare ancora un tentativo. Entro e faccio un giro del posto.

Non che mi aspetti di trovare qualcosa ma non mi perdonerei di non averlo fatto. La buona riuscita della missione dipende da me solamente e non posso crearmi nessuno scrupolo. Cammino e il mio occhio incappa in qualcosa di metallico sul pavimento: una chiave a scansione, la raccolgo. Sopra c'è disegnato il logo del posto e deduco che debba aprire qualcosa che sta lì dentro. I cadaveri qui dentro sono relativamente pochi e tutti emaciati, ma interi. Forse persone che si sono lasciate morire fin lì sperando nel cibo. Faccio il giro più e più volte senza trovare nulla. Infine, sconsolato, mi dirigo alla cassa. La macchina degli scontrini presenta un foro da chiave. Cosa mai potrò trovare dentro una cassa? Mi chiedo. Ma comunque la infilo e giro. I led luminosi lampeggiano e tutto il bancone si apre in due. Sembra la scena di un film.

E dentro trovo una bellissima scatola grande quasi quanto me. Sulla facciata che ho davanti sta una bellissima mucca che pascola in un campo, poi un cognome straniero che non conosco. Il cuore mi batte all'impazzata e il mio cervello scoppia d'informazioni. Immagino un futuro felice e mi osservo in una casa di riposo per persone obese. Vedo queste e altre cose. Intanto le ghiandole salivari cominciano a produrre, sento che sto sbavando. Come un cane. Mi sento come un uomo normale che trova la prova vivente del fatto che Dio esiste e mi tremano le mani. Afferro la scatola pronto a tirarla fuori. Tutta questa situazione mi ricorda una storia che ho letto da bambino, ma di cui non riesco a ricordare il finale. Un giorno un uomo va su una barca ma questa naufraga. Dopo molte peripezie approda su un'isola deserta e passa il primo mese a mangiare e a scoprirne fauna e flora locale. Si abitua alla sua nuova vita e non la disprezza, cerca di vederne i lati positivi. Va avanti così ma poi, prima lentamente poi di colpo, si affaccia lo spettro della noia e prega che gli accada qualcosa di nuovo o che trovi un modo per cambiare questo stato di cose. Girovagando per l'isola trova un pacco. Incuriosito e felice lo apre, scoprendolo pieno di libri: copertine rigide e tutti colorati. Il suo cuore è colmo di gioia. Proprio come il mio. Ma non so perché non ricordo come finisca quella storia. La fantasia svanisce mentre apro la scatola e trovo tanti piccoli involucri del tutto uguali a quella della gigante scatola. Sbavando per terra per la contentezza ne apro una e dentro trovo una marea di pillole.

Davanti ai miei occhi appare qualcosa che associo a pillole di aspirina, ma intuisco dall’odore che non è così. Sento gli occhi umidi. Reminiscenza: la storia terminava con una macabra scoperta: tutti quei libri erano scritti in giapponese. All’improvviso quella narrazione terminava in quel modo…..ma la mia prosegue. Resto immobile per mezz'ora tentando di non pensare a niente ma non ci riesco. Butto giù due o tre pillole. Le ingoio e non sento niente. La crisi globale era giunta di soppiatto e ci aveva colti tutti all'improvviso. Nessuno era riuscito a reagire con prontezza e criterio. I rapporti diplomatici furono le prime cose a cadere e diventammo tutti, all'improvviso, nemici. Loro hanno il nostro cibo. Non si riusciva a pensare ad altro. Noi soldati del B.I.M.B.I., ente governativo speciale del mio Paese, ci trovammo in terra straniera in cerca di viveri. E questo è quanto. La gloriosa missione del mio paese... E troviamo pillole. I miei superiori mi faranno a pezzi se porterò loro questo schifo. E' tutto un delirio. Voglio mangiare! Voglio mangiare! Voglio-

Le note si interrompevano all'improvviso. L'uomo guardando sotto di sé si accorse che accanto al cadavere vi erano pure i corpi di tre esseri umani spolpati fino all'osso. Vide anche sul braccio sinistro di uno dei corpi vi erano evidenti segni di morsi. Il terreno ora è colmo di quelle che sembrano medicine.

sabato 13 aprile 2013

Reali Finzioni

Reali Finzioni

Tutta l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo.”

    - Blaise Pascal



Il rumore degli spari copre tutti i suoni di sottofondo, non riesco nemmeno a percepire il battito del mio cuore. Ma so, senza alcun dubbio, che batte con un frastuono tale da competere con un assolo di batteria suonato a velocità allucinante. In questi casi tutti sparano ma senza mirare. Sono tutti troppo impauriti o scossi da fermarsi un attimo a prendere la mira. Siamo esseri istintivi, in fondo vogliamo tutti solo riportare a casa la pellaccia. E quindi spariamo riducendo i nostri ripari a scolapasta. C'è qualche colpo fortunato e magari qualche grido. Magari qualcuno cade a terra. Esulti due secondi contati e poi continui. Ecco, ora è proprio così. Guardo a destra cercando di intravedere il mio socio. Mi da un ok con la mano. Siamo ancora tutti interi.

Qualche passo dietro c'è anche il terzo elemento della squadra. Di solito lei è l'hacker del gruppo ma per questa sortita ha scelto di venire con noi. Ovviamente la sua mira è ridicola ma si da da fare. Non è eccessivamente bella né affascinante ma sono terribilmente attratto da lei. E c'è un buon 10% che la cosa sia ricambiata. Ad ogni modo avanziamo lentamente: le nostre pistole a impulsi funzionano a dovere e non c'è mancanza di proiettili. Dieci minuti dopo l'ultimo è caduto e ci alziamo dai nostri ripari. Il mio compare lamenta un dolore al ginocchio, ma ce la farà. Mi dispiace per il dolore: il ginocchio, insieme allo stomaco, è il punto più doloroso in cui ricevere un proiettile. Esperienza personale.

La tipa si ferma a soccorrere il ferito mentre io procedo da solo. Secondo la planimetria che è dentro il mio Magiko dovrebbe essere la seconda a destra. Avanzo con cautela, il silenzio è tutto. Svolto l'angolo e mi ritrovo davanti un energumeno. Riesco a colpirlo in due punti prima ancora che riesca a prendere in mano l'arma. Sentendo l'odore della carne bruciata lo supero, eccomi alla porta. Non riesco a leggerne i caratteri ma so benissimo che è lì. Questa scena me la sono prefigurata un milione di volte e ognuna di esse aveva un finale diverso. L'avercela davanti mi fa solo sorridere. Prendo fiato e la sfondo con un calcio frontale, facendo irruzione come dei poliziotti da fiaba.

La prima cosa che vedo è il mio primo obiettivo: il quarto elemento della squadra. Era stata presa poco tempo prima perché aveva avuto la fantastica idea di giocare a fare l'eroe, da sola. Si trovava su una sedia con le mani legate dietro la schiena e un panno appallottolato nel cavo orale. Sembrava insultarmi ma non capivo bene. Bene, sono a metà. Mi avvicino a lei ma appare un tizio che mi sbarra la strada. Non sembra molto contento di vedermi. E' mio fratello, il braccio destro di tutta quell'organizzazione malata che volevamo fare a pezzi. Ci guardiamo in cagnesco, da bravi gemelli quali siamo. Come in un copione buttiamo le armi e ci mettiamo in posizione di combattimento.

Iniziamo a darcele. Avevamo studiato entrambi il combattimento corpo a corpo nell'esercito e avevamo le medesime caratteristiche. Sarebbe stata la fortuna a decidere chi sarebbe stato il vincitore... Sembrava di combattere con uno specchio. Dopo molti tentativi lo stringo all'angolo e piazzo un calcio circolare alla sua tempia, le gambe gli cedono. Lo scruto per vedere se succede qualcosa ma niente, abbasso la guardia. Poi lui, improvvisamente, si lancia verso la pistola che aveva lanciato pochissimo tempo addietro e prova a spararmi, io mi tuffo per terra schivando il colpo e contemporaneamente prendendo la mia. Poi gli sparo, disintegrandogli il cuore. Si accascia senza vita ma non piango per lui, se l'era cercata. Libero la mia compagna e usciamo insieme dalla stanza.

Grazie.” Mi dice. Poi mi abbraccia.

Dovere!” Rispondo ricambiando l'abbraccio.

Decidiamo che io sarei andato a scovare il capo mentre lei avrebbe disattivato la rete elettrica per non permettergli di fuggire. Ci separiamo e sono di nuovo solo. Cammino ricontrollando il mio Magiko sulla mano. Arrivo ad un altra porta, molto simile a quella di prima. Non busso ma apro lentamente la porta. Lui è lì ad aspettarmi. Guarda il paesaggio fuori dalla finestra con le mani intrecciate dietro la schiena.

Finalmente ti vedo. Sarà un piacere molto breve perché ho intenzione di svitarti la testa!”

Vieni a prendermi!” Gli dico stringendo la pistola. Lui si getta verso di me e cerco di sparargli...



<< Bene, fermiamoci qua. >> Dice il Raist il Mago. << Si è fatto tardi e domani ho lezione all'università di Kinston. Raccogliete la vostre cose, vi voglio fuori da casa mia entro cinque minuti! >>

<< Ma stavo già tirando i dadi per vedere se lo colpivo! Proprio alla fine... >> Rispondo lasciando cadere i dadi sul tavolo. << Mancava così poco. >>

<< Beh comincio anche io a essere stanco. Domani ho il giro di ronda. >> Dice Carmon. E' un soldato che sta ai cancelli della città. Di fatto non fa nulla tutto il giorno, ma ogni tanto si presta a questi giochi.

Le due donne si alzarono ringraziando. Poi se ne vanno insieme dato che abitano insieme nelle camere dell'università dove lavora il vecchio mago che ci fa da Magister.

<< Pip, buona notte! I giochi per stasera sono finiti. >> Mi chiude la porta in faccia.

Me ne vado verso la taverna, insoddisfatto. E' tornato tutto come prima, una normalissima serata senza alcun colpo di scena. Di draghi non se ne vedono più da secoli e il regno è in pace. Non si sa né come né perché ma persino le tasse sono basse. Il mio impiego come fabbro mi da abbastanza per campare dignitosamente ma manca qualcosa. Mi sento inutile. Al mattino quando mi sveglio, la notte quando vado a dormire, mentre lavoro, al mercato. Non è noia, ho tante cose da fare, eppure sento che manca qualcosa. Le serate da Raist sono le cose che aspetto tutte le settimane, almeno nel mondo di Arret sono un importantissimo soldato sempre in giro per il mondo a sgominare organizzazioni terroristiche con un super team. Qui sono solo un fabbro. Alcolizzato per giunta.

In taverna Otiv mi fa le solite domande. Ormai è abitudine, dopo ogni serata di gioco mi aspettano due pinte di birra (e spesso anche altro...). Lui nota la mia solita espressione storta e laconica. Non mi fa la solita domanda, ma invece mi chiede perché continuo ad andarci. Dice che mi sto facendo del male e che questo mi farà stare sempre peggio. A stare sempre fra le nuvole si perde di vista il fatto che esiste comunque la forza di gravità. Bevo due sorsi pensandoci poi decido di rispondergli. O forse rispondo a me. Quando saprà la risposta ve lo farò sapere.

<< Lo faccio perché è divertente. Questa vita mi sta stretta, voglio correre all'avventura e fare qualche stupidata. Penso che, nonostante questo bel periodo di prosperità, ci sono persone che non possono essere felici perché vogliono comunque qualcosa di nuovo. Non basta stare bene perché troverai rogne anche quando stai bene. E' un circolo vizioso infinito. >>

<< Io sto benissimo e gli affari non vanno così bene da tempo. >> Un'argomentazione che fa a pezzi il mio castello di convinzioni fittizie.

<< Beh io no. Tutto questo non mi basta. Qui non sono nessuno. Almeno una sera a settimana sono chi scelgo di essere, senza se e senza ma. Ho bisogno di sentirmi importante suppongo. >>

Mi ride addosso. << Ma è una finzione Pip. E' solo nella tua testa. >>

<< Esatto, ma a me sembra reale, almeno per quelle due o tre ore. E non cominciarmi a dire che sono troppo grande per queste cose. La verità è che mi manca qualcosa, odio la monotonia. Mettere ferri ai cavalli non è il massimo della vita. >>

Otiv se ne va a servire un altro cliente e io continuo a rimuginare su queste cose. Penso che vivere senza autostima sia come camminare con un piede ferito e solo Roht sa quanto mi fanno male i piedi. Finisco la birra e, dopo un poderoso rutto, torno a casa.

sabato 6 aprile 2013

L'InFerno è Freddo

giuseppe 7

L'InFerno è Freddo.

A volte l'uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza.”

    - Fedor Dostoevskij



Una strada sterrata, la via è diretta. Cammino mano nella mano con una donna, il suo volto è sfocato, non riesco a vederlo. Chi è? Poi volgo la testa proprio davanti a me e lo vedo, chiaro come il giorno nonostante sia buio. E' davanti a me e cerca di risucchiarmi. Un Baratro gigantesco. Un burrone di proporzioni epiche. Il cuore comincia a battere forte e mi assale la paura. Lei vuole spingermi giù e cerco di staccare la mia mano dalla sua. Urlo...

Mi sveglio gridando. E' tutto molto vivido dentro di me, a parte il viso della donna. Sono sudato fradicio nonostante sia inverno inoltrato. Ho i capelli umidicci e ho solo voglia di fare una doccia. Vengo investito da un mare di ricordi. Belli e brutti. Insignificanti e non. Una cascata di immagini, suoni, colori e odori. La mia mente, in quel caos primordiale, li cataloga come una brava segretaria e il caos dura solo pochi secondi. Investito dal getto di acqua calda cerco di analizzarli uno per uno. Alcuni mi sono tornati in mente ultimamente, altri no. Non sembra esserci un ordine o, in ogni caso, io non sono in grado di intravederlo. Ricordo il mio primo giocattolo, il cane che non ho mai avuto, il compito di greco che ho sostenuto il terzo anno del liceo (quello in cui presi 3). E dopo tutto questo materiale sepolto che torna indietro come zombie affamato rientra anche lei. Potentemente, come se fosse un ariete che spezza i portoni della mia mente. E d'un tratto capisco chi diavolo era quella donna. Subito dopo concludo che era meglio non sapere. Come disse un saggio in un film “l'ignoranza è un bene”. Sono dell'opinione che chiunque critichi questa frase sia un idiota. Senza se e senza ma. E sono anche conscio del fatto che, grazie a ciò che ho detto, saranno molte le persone a reputare ME un idiota. Ma tanto è tutto già visto. Niente di nuovo sotto il sole.

L'acqua bollente mi morde delicatamente. Sento un leggero benessere. Un calore che rigenera, che nutre. Dentro la doccia tornano prepotenti altri ricordi che non avrei voluto assolutamente rivangare, ma tanto è il tema della nottata, suppongo dovrò rassegnarmi. Mi vengono i mente tutti i regali inutili che le ho fatto e tutte le volte che mi sono comportato da zerbino. Una spirale di azioni stupide condite da buonismo impeccabile e da quello che io chiamo “sputare arcobaleni addosso alla gente”. Dio come mi odio. Ad un certo punto l'acqua diventa di colpo fredda. Realizzo che sono rimasto sotto l'acqua più del dovuto e che è finita l'acqua calda. Ho perso la cognizione del tempo, immerso com'ero nei ricordi. Sembra sia passato solo un attimo... Metto l'accappatoio e vado in soffitta a cercare qualche indumento più caldo da mettere. Tra scatoloni di robaccia e vecchie riviste di fantascienza trovo quello che cerco: una scatola bianca senza imballaggio. Tolgo gli indumenti uno ad uno per arrivare a quello che cerco e proprio sopra una felpa vecchissima vedo ciò che non avrei proprio voluto vedere. Non oggi, almeno. Quella foto. Non la vedevo da diversi anni. La cornice è di plastica, una di quelle che si compra per due euro in una qualsiasi cartoleria, alcune righe bianche sull'immagine fanno capire che è stata piegata diverse volte.

E' una foto che abbiamo fatto durante un viaggio in America, si intravede il gran canyon sullo sfondo. Poi ci siamo io e lei uniti in un bacio, uno di quelli da film che non esistono nella vita vera. Siamo messi di proposito lontani dal centro, per permettere a chi guarda di intravedere il paesaggio circostante. Ormai non si vede quasi più niente. La foto è deturpata in più punti. Ricordo che passai un'intera giornata a graffiarla con le unghie, con una penna, usando anche un taglierino. E' incredibile quello che riesce a fare un uomo quando è sufficientemente motivato a fare qualcosa. E anche un po' frustrante. Ho rovinato quasi tutta la foto rendendo così l'immagine simile ad un paesaggio evanescente o fantastico. Io volevo solo rovinarla... Poi noto un particolare che non avevo mai notato prima e che mi spinge a digrignare i denti per la sorpresa e anche per il fastidio. La sua figura è quasi immacolata. La mia furia distruttiva ha, non saprei dire se volontariamente o no, corrotto gran parte della figura lasciando intatta solo la sua figura. Altra cosa frustrante di questa sera. Mi vesto e rimetto a posto la foto nella scatola. Tanto ormai è entrata di prepotenza nella mia mente.

Mi sento sotto assedio. Ringrazio iddio che l'indomani è domenica e posso dedicarmi al dolce far niente tutta la giornata. Poi mi rituffo a letto. Le forze nemiche non lanciano altri assalti.

La mattina la passo a guardare porno e a guardare b-movies, mi aiuta molto (ma non abbastanza). Non faccio altro che pensare alla foto e al perché abbia lasciato lei immacolata. E' stato un caso? E' stato l'inconscio? Ero sbronzo? La foto sembra non voler rispondere. Così esco. Pranzo fuori e passo il pomeriggio al cinema. C'è un bel film che aspetto da tempo. Il film tocca alcune corde, come ogni film che si rispetti, ma riesco a non pensare troppo. E' stato solo un sogno... Uscendo mi dirigo al pub, dove ho un appuntamento con alcuni amici. Fuori fa davvero freddo. Respirando libero nuvolette bianche e mi sembra di fumare. Improvvisamente sul campo di battaglia della mia mente comincia a scendere un velo bianco di neve. Prendo la prima birra verso le nove, mentre iniziano a suonare. La musica di sottofondo è un toccasana per la mia mente dilaniata. Mi riscalda un po'. Arrivano i miei amici e cominciamo a parlare. Cerco di non far vedere i miei problemi ma più o meno tutti capiscono (tranne la ragazza del mio migliore amico, ma lei è davvero un idiota). Cercano di coinvolgermi nonostante il mio silenzio forzato. E continuo a scolare birre. Quando comincio ad essere un po' brillo sento qualcuno dire qualcosa come “di nuovo?” guardandomi di sottecchi. Capisco al volo ma non replico.

Il troppo alcool nel corpo mi da una sensazione come di gelo e comincio a tremare. La mia mente vaga alla ricerca di qualcosa e penso a quanto sarebbe bello sdraiarmi insieme ad una persona, a stringermi nel suo calore come fosse un bozzolo. Ne sarei rinato come una falena, attratta da un nuovo fuoco più in là nella sua breve vita. Le mani che mi toccano, i denti... i Capelli. NO. Non oggi. Non stasera, gli assedianti vogliono prendermi per fame, dato che non riescono con le armi. Butto altri soldi al bere e torno caracollando al tavolo. Gli occhi semichiusi fanno capire agli altri che non è serata ma la prendono a ridere. Nessuno, come me, vuole crogiolarsi nel freddo. Circa un'ora dopo, nel totale oblio, mi butto sotto al palco a dare qualche spintone a qualcuno. Cado ridendo più di una volta, ma mi rialzo sempre. Quando tutto finisce mi ritrovo per terra, nella pozza del mio stesso vomito, una lacrima mi solca la guancia ma tutti pensano sia sudore. Mi caricano di peso, poi chiudo gli occhi. Appena li riapro vedo un paesaggio sfrecciare intorno a me mentre un rumore borbotta. Chiudo gli occhi un'altra volta ed entro nella notte più nera.

Fa molto freddo. E sono da solo, avanzo nella tormenta di neve. Sto camminando in un piazzale. Intorno a me sfrecciano uomini coperti d'acciaio, qualcuno mi urta ma mi chiedono subito scusa. Dall'alto cadono come delle comete. Impattano sulla costruzione dietro di me, cadono pietre. Cammino senza meta sentendomi sempre più spossato. Rientro nel castello, in cerca di un fuoco ma non trovo nulla. Provo ad accenderlo e riesco solo dopo molti tentativi. Neanche un'ora dopo dietro di me sento una presenza. Mi giro e vedo una figura in armatura completa, ha in mano uno spadone a due mani e ha la faccia coperta dall'elmo. Anche se non ne vedo gli occhi so che mi scruta. Alza la visiera e vedo lo stesso viso del sogno dell'altra notte. Un viso bellissimo, dai lineamenti delicati. Sta sorridendo. Ma io ne ho solo orrore. Afferro una spada che si trova a fianco del caminetto e mi preparo a combatterla come fosse un diavolo dell'inferno. La sua bellezza è la mia paura, i suoi occhi blu mi guardano e mi ghiacciano, sono impietrito. Non riesco a restituire lo sguardo.

Mi attacca con la sua spada, per poco non mi taglia la testa. Perché lo sta facendo? Questa fortezza è inutile, sta in mezzo a nulla e non ha importanza da nessun punto di vista. Conquistarla non le darebbe niente. L'unica cosa che prenderebbe sarebbe la mia vita, ma quella in parte se l'era già presa. Questa consapevolezza la fa vacillare. Capisco di essere nel giusto. Siamo piccole isole nel nulla, siamo in mezzo ad un deserto fatto di neve e per comunicare dobbiamo tracciare lunghi sentieri nella neve. Come l'inferno. L'inferno non può essere caldo e pieno di fuoco. Il calore è la frenesia, il movimento, la furia: la vita. Il posto peggiore di tutti non può essere così. Il freddo è la stasi, la solitudine, l'immobilità. La morte è immobilità, la fine del movimento. E i suoi mostri sono fatti di ghiaccio. Ma questi mostri li ho creati io e perciò li posso distruggere. La guardo negli occhi con sicurezza e tutto mi è chiaro. Prima che tutto diventi bianco rimane il viso di lei impresso nei miei occhi. Davanti a me c'è una persona che scambio per lei ma è solo un residuo del sogno. E' un dottore che mi dice cose ovvie.

Lo ascolto con finto interesse e poco dopo sono pronto per tornare a casa. Mi sento diverso, più sicuro e perfettamente in salute. Tutto il contrario di ieri. E mi sento anche cambiato, forse un uomo nuovo. Mi riprometto di non lasciarmi più andare in balia dei ricordi e torno a casa. Cerco quella foto, determinato a deturpare anche la sua figura, ora che l'ho sconfitta. Ma quando la prendo in mano scopro che qualcuno l'ha già fatto. O che forse ieri mi era apparsa immacolata a causa della mia suggestione. Non avrò mai la mia risposta. E non mi interessa. Per quel che ne so è sempre stata così. Il mio è stato solo un sogno. E non ricapiterà mai più.



Una settimana dopo...



Una dura giornata di lavoro. Torno a casa e mi butto nel letto senza togliermi i vestiti. Crollo subito nelle spire di Morfo.

Una strada sterrata, la via è diretta. Cammino mano nella mano con una donna, il suo volto è sfocato, non riesco a vederlo. Chi è? Poi volgo la testa proprio davanti a me e lo vedo, chiaro come il giorno nonostante sia buio. E' davanti a me e cerca di risucchiarmi. Un Baratro gigantesco. Un burrone di proporzioni epiche. Il cuore comincia a battere forte e mi assale la paura. Lei vuole spingermi giù e cerco di staccare la mia mano dalla sua. Urlo...

venerdì 29 marzo 2013

Chiaro di Luna

giuseppe 6

Chiaro di Luna

Ove c'è raziocinio c'è scelta, ove c'è scelta c'è libertà. […] La libertà, prima di un diritto, è un dovere.”

    - Oriana Fallaci



Pugnali mi pungono sulle mie gambe e mi bruciano come se fossero arroventati. Anche se in realtà sono freddissimi. Sono con l'acqua sui fianchi ormai da qualche minuto e sento già che c'è qualche problema nella parte bassa del corpo. Forse sto perdendo la sensibilità ai piedi. Ma sono inspiegabilmente felice. Sono nel mio luogo preferito, il laghetto di casa mia. Ricordo ancora la prima volta che sono venuto qui, forse avevo cinque anni e lo scoprii per caso, giocando a nascondino. E' proprio vero che le cose migliori si scoprono per caso, forse proprio perché non abbiamo alcun potere in questo processo. Personalmente è una cosa che detesto. Essere in balia di qualcosa che non capisco mi da un fastidio assurdo. Quasi come se vivere non avesse alcun senso. Ma oggi sto per ribaltare questo meccanismo maledetto, oggi sto per prendere concretamente in mano la mia libertà. Se esiste il fato,e penso di no, oggi lo sconfiggerò. Questa decisione, come tutte quelle della mia vita, è nata dopo un travaglio lunghissimo, un parto in ritardo. E ora me lo sto gustando come poche cose. La luna piena mi saluta, riflessa nell'acqua e penso. Alla mia vita.

Non ricordo molto della mai infanzia, ma so per certo che sono nato in una famigliola di campagna. Il classico gruppo familiare che vive con poco e che passa il suo tempo a coltivare, a spaccarsi la schiena- Il tipo di persone che ama veder crescere la terra. La maggior parte delle persone, quando guarda qualcosa, non pensa al lavoro che c'è dietro o a quante schiene spaccate ci sono volute per produrlo. Pensano che magari è nocivo per la dieta o che fa ingrassare. La reazione tipica delle persone insignificanti. Beh, essendo nato in questa famiglia, sono sicuro di poter dire che non sono una persona insignificante. So cos'è il duro lavoro e so che per amare le cose devi sudare per averle. Ma questa è retorica. Sono figlio unico e la mia famiglia, sin da sempre, ha sempre fatto di tutto per cercare di cacciarmi via da loro. Lì ero perduto, secondo i miei genitori. Dovrei ringraziarli e per il primo periodo l'ho fatto. L'idea di essere considerato un pezzente dai miei amici mi dava un leggero fastidio, ma è durato poco. Alla fine ho capito il mio sbaglio. E si sa: chi non si accetta non merita di essere quello che è.

L'acqua è talmente pulita che mi ci posso specchiare perfettamente. Non ha un solo moto e non so come possa esistere un lago così pulito in questo paese. Sarà perché è piccolo o perché la gente ha perso il gusto dell'esplorazione. In realtà non sono mai stato un fanatico della campagna o degli spazi aperti, li considero solo un poco più suggestivi del solito. E di certo non ci vuole molto per essere più evocativi di una panchina. E' solo il meno peggio. Non mi è mai andato bene nulla, lo capisco da solo. Un giorno un anziano disse: Dio ci ha fatti invecchiare per trovare difetti in tutto ciò che ha creato. E io, nonostante tutto, mi sento davvero vecchio dentro. Non riesco a spiegarmelo ma è l'unica cosa che mi viene da pensare. Non ho più entusiasmo e mi sento vuoto. Ho sempre visto le persone come dei vettori, come dei segmenti orientati verso qualcosa: un obiettivo, un sogno o qualcos'altro. Bene, mi sento una linea. E una linea senza verso non va da nessuna parte. E che senso ha vivere senza scopo?

I miei mi hanno sempre pagato tutti gli studi, fino all'ultimo centesimo, anche se questo ha causato loro qualche scocciatura di troppo e anche senza chiedermelo. Hanno sempre deciso tutto loro. Anzi, hanno deciso tutto cercando di farmi capire che in realtà ero io a scegliere. “Vai al liceo, ma sceglilo tu!” era la frase tipica. Nessuno mi ha mai chiesto niente ma ho accettato perché una linea senza orientamento cerca di andare in tutte le direzioni più vicine a lui. Meglio quello che il nulla. Sono sempre stato brillante, per tutti ero un secchione atipico. Troppo inespressivo per essere un secchione, troppo ameba per essere un tizio normale o un figo o qualche altra categoria creata da ragazzini per sopperire a qualcos'altro. Ero sicuro che avrei trovato la mia strada provando tutto ciò che potevo, anche quello che non sceglievo. Amavo la filosofia, anche se nei primi la chiamavo “l'arte di dire cose ovvie usando parole difficili”. La consideravo il modo migliore per indagare in se stessi e io sentivo di averne bisogno. Era l'unica cosa che facevo con piacere.

E ovviamente nessuno era contento, era la materia dei perdigiorno e delle seghe mentali. Delle persone che blaterano di concezioni cosmologiche perdendo di vista la realtà concreta. I miei non erano contenti, non volevano un figlio fanfarone e alla fine del liceo dissero che non era una buona idea iscrivermi a lettere. “Non ci mangerai con Aristotele.” La scelta ideale era qualcosa di socialmente utile, qualcosa che non volevo. La solita roba, ma l'ho comunque accettato. Cominciavo a pensare di odiarli ma d'altro canto mi sembrava di farmi del male. Loro sapevano, io no. Era questo l'andazzo. A questo proposito mi vengono in mente i catari, “eresia” che avevamo preso in considerazione nell'unica lezione di religione utile della mia vita. La loro massima di vita era “la libertà era l'incapacità di fare il male”. E' una cosa che non ho mai capito. Sembrava una limitazione, ma nella loro concezione aveva senso. L'ideale cataro era che Dio era capace di fare solo del bene e per essere liberi, quindi vicini a Dio, non si poteva fare altro che evitare sempre il male. C'è una logica di fondo in tutto ciò, ma non la condivido minimamente.

In quella lezione di religione ricordo che la prima cosa che pensai era “li odio”. Odiavo il loro modo d'essere. Non mangiavano carne perché considerata impura, erano quasi del tutto casti, sempre sorridenti e pronti ad aiutare. Andava tutto bene. E non c'era niente che odiassi di più. La purezza, la perfezione. Proprio come mi vorrebbero i miei. Mi vorrebbero limpido come le acque di questo laghetto, ma io desidero l'inquinamento dell'anima. Qualcuno disse: io odio la purezza e odio la bontà, detesto la virtù, non voglio che esista, voglio che tutto sia corrotto. Forse l'ha detto perché, come me, era nauseato da tutto questo buonismo, l'idea di voler diventare a tutti i costi perfetti ed importanti. Esattamente come i miei che volevano proiettare in me la loro impotenza, ma io avevo bisogno d'altro. Non dovrei fargliene una colpa, a modo loro volevano solo il mio vantaggio ma non potevo fare a meno di essere irriconoscente. Quasi sicuramente è un problema mio, ma sono davvero stanco e ho preso la prima decisione della mia vita.

E ho scelto questo posto, il posto in cui sento di essere nato. Come un ideale salmone che spesso muore nello stesso posto in cui nasce. Se non altro sarà facile, non so nuotare e sono abbastanza lontano perché nessuno mi senta. E come ultima soddisfazione infangherò col mio sangue questo bel laghetto, che per tutta la vita ho amato. Forse lo faccio per capriccio o per insoddisfazione. Se lo chiedeste a me vi risponderei con parole altisonanti, ma l'unica cosa certa che so è che solo adesso, in procinto di tirare le cuoia, mi sento un vero essere umano. E vado avanti, verso il largo. E prima che l'acqua mi arrivi alla gola e che la vista mi offuschi vedo, soddisfatto, una piccola nuvola offuscare lentamente la luna.