giovedì 9 giugno 2016

Fantasmi

Fantasmi


"Perchè lo fai?"
"Io... Non lo so... Non so nemmeno se sono io che comando, o..."



In quella notte di luna piena la sua sagoma si stagliava forte e facile da distinguere. Lei vide il corvo poco prima di esplodere, mentre lo sovrastava dall'alto, la mano guantata di lei premuta sulla bocca di lui, che in tutto questo pareva ridacchiare a occhi chiusi. Poi lei parve avere delle strane fitte e quasi si accascio in debito d'aria. Lui se ne accorse e l'abbracciò. Poco dopo anche la sua serata si colorò di stelle variopinte e fugaci. E rimasero abbracciati tutto il tempo, a guardarsi e a sussurrarsi cose carine. Lei pareva più tranquilla e felice del solito, lui un pò meno, ma non era una novità. C'era sempre qualche spettro dietro i suoi occhi e cominciava a spuntargli qualche capello bianco.

Erano al limitare di una foresta, una delle tante, per lui erano tutte uguali: alberi, erba, animaletti, inciampare, starnuti. Nient'altro. Lei era più bendisposta, si fermava a parlare con animali, cercava e raccoglieva piante e fiori. Sembrava una bambina. Lui amava guardarla mentre lo faceva, sentiva quasi un pizzicore agli occhi ogni volta. E si teneva la pancia, pronto a vomitare da un momento all'altro, ma non succedeva mai: come stare appesi ad un filo sull'abisso, ma sapendo che il filo è indistruttibile... Nonostante ciò non ti fidi e hai paura di cadere. Solo la vicinanza di lei, o almeno lui credeva così, riusciva a distoglierlo dalle sue cose.

Aveva un bellissimo sorriso, i capelli rossicci erano cresciuti un pò e, mano a mano che passava il tempo, lui la trovava più bella (o almeno così credeva). Quel giorno si era pure messa un bel rossetto carnoso, a lui piaceva. La guardava intensamente scacciando i mostri che gli assediavano il cervello, quasi che avendola davanti lei potesse distruggere con una delle sue magie i suoi problemi. Si ritrovò ad abbracciarla mordicchiandole i capelli e lei si mise a ridere come un piccolo bebè infagottato. Vestitisi, decisero di rimettersi in cammino. Lei cominciò a parlargli del corvo che aveva visto e lui si fece pensieroso. Poco lui disse quello di cui avevano paura entrambi.

"Probabilmente è un messaggio per qualcuno che sta in quella città... Ci aspettano, probabilmente."
"Pare l'unico centro abitato dei dintorni e ovviamente noi non abbiamo provviste o altro..."

Lui si controllò le piastre dell'armatura e il cinturone con la spada: era un pò scomodo portare una spada così lunga alla cintura (e spesso strisciava per terra), tenerla sulla schiena avrebbe reso difficile sfoderarla velocemente in caso di attacco. Aveva fatto le prove e nove volte su dieci la lama rimaneva nel fodero per metà nonostante lui stendesse il braccio al massimo. Teneva la mano sinistra sull'impugnatura per controbilanciare il peso della lama. Lei invece saltellava col suo bastone che all'occorrenza fungeva da torcia, il suo mantello non nascondeva benissimo le sue forme, forse a causa del caldo.

Nonostante tutto la città appariva ben lontana da loro, probabilmente ci sarebbero arrivati l'indomani, ma potevano ancora camminare. Poco dopo incontrarono una figura incappucciata camminare con una certa fretta in città, le si avvicinarono istintivamente e questa si girò. Alesja la riconobbe subito, era una delle sue amiche e colleghe della Congrega, una vita fa. Lui si mise ad origliare, non volendo rovinare il momento fra le due e non essendo nemmeno troppo interessato. Parlarono di cosa era successo nel frattempo, di quanto tempo fosse passato, di ricordi vari. Tante risate. Poco dopo la nuova arrivata si interessò a lui.

"Ma quello è il tipo per cui lasciasti la C- mmpf!"
"Lascialo stare, in questo momento è un pò scorbutico, dimmi ancora di te!"

Alesja le aveva tappato la bocca con una mano, tenendola ferma per mezzo minuto, fra risa soffocate e lo sguardo improvvisamente interessato di Otiv. Il piacevole calore scacciò per un attimo le sue elucubrazioni, poi le due continuarono a parlare. Dieci minuti dopo la nuova arrivata scomparve senza che lui se ne accorgesse. Lei gli si avvicinò toccandolo gentilmente e sussurrandogli delle cose all'orecchio, cose un pò strane, sia per lei che per lui. Continuarono a camminare e poco dopo decisero di accamparsi in una casetta fatiscente trovata nel bel mezzo del nulla.

"Non mi ha detto perchè anche lei ha lasciato, almeno apparentemente, la Congrega. Ha farfugliato scuse stupide ogni volta che gliel'ho chiesto. Diceva di avere fretta." Aveva detto Alesja poco prima.
"Ma come ho fatto a non vederla sparire? La strada è tutta dritta e non credo che avesse altro obiettivo che la città vicina."
"Lei era bravetta in questo, infiltrazioni, furtività e raccolta di informazioni. All'occorrenza svanisce alla vista. L'unica cosa che mi parve autentica era la sua fretta!"



"O cosa?"
"O qualcun altro."



L'indomani si svegliarono di buon mattino, nulla di nuovo sotto il sole: lui un pò spento e lei felice come un coniglietto. Si diressero subito alle porte della città. Videro le guardie al cancello, armate di alabarde ed elmi a punta. Lui le raccomandò di far parlare lui e di non usare la magia, dato il rischio e il fatto che probabilmente li aspettavano. Camminando Otiv digrignava i denti, preso dai suoi pensieri non purissimi e lei se ne accorse tirandogli una gomitata sul fianco, lui rise. Mentalmente sperò che quel periodo di pensiero instabile finisse velocemente, ma più ci pensava più quello gli si avvinghiava addosso. Il solito circolo vizioso.

Fermati dalle guardie lui tirò fuori delle monete e le condì con una bugia. Le guardie mangiarono tutto facilmente e la coppia entrò in città. Scoprirono praticamente subito che si chiamava Odil-Oraznatac, lei rise al nome. Per rilassarsi si misero a camminare osservando le vetrine, i cappucci ben calati in testa. E continuarono così per un bel pò, poi si fermarono a bere qualcosa. Infine notarono una cosa strana: in quella che pareva essere la piazza cittadina si stava formando un assembramento di persone. Capirono di cosa si trattava vedendo il patibolo. Si sa che le persone sono attirate dall'orrido, nonostante tutto e loro non facevano eccezione. 

Il caldo si faceva soffocante mentre loro, schiacciati dalla calca, osservavano in silenzio degli uomini con delle maschere nere portare sul palco una figura in catene, Alesja riconobbe quasi subito i suoi capelli castani e si strinse a lui sgranando gli occhi. Otiv riconobbe la ragazza del giorno prima e tutto, per un attimo, gli parve irreale e stupido. ciononostane misero la testa sbavante della condannata, vestita solo di stracci, sul ceppo, preparando le spade. Alesja cominciò a battere i denti mormorando qualcosa, combattuta. poi si staccò da lui dirigendosi in prima fila, per osservare bene o forse per provare a fermare tutto, lui la afferrò per le spalle.

"No." Sussurrò.

Lei fu sul punto di protestare e liberarsi, ma lui l'abbracciò da dietro, le disse qualcosa all'orecchio, lei scosse la testa, poi l'abbassò. Rimase lì, imprigionata dal suo uomo, impotente. Intanto qualcuno si mise a leggere i capi d'accusa, Otiv sentì le parole "tradimento" e "fuga", poi notò che il bastone di lei cominciava a lampeggiare, segno che nella maga si stava risvegliando qualcosa. Le tappò la bocca con fermezza stringendola ancora di più a se. subito sentì una mano guantata di lei combattere contro la morsa che le impediva di muovere le labbra, poi le lacrime di lei sulla sua mano. La baciò sul collo, sulle spalle, delicatamente. Poi, appena vide la spada alzarsi le girò la testa di botto, guardandola così negli occhi. Lei li aveva rossi e gonfi. Le liberò le labbra e andarono via, senza preoccuparsi troppo di niente.

Non si mossero dalla locanda, tranne che per mangiare e dormire, tutto il giorno. Non parlarono, ogni tanto si stringevano, era come se fosse finito qualcosa per lei. Come se avesse visto coi suoi occhi cosa le toccava se falliva. In realtà sapeva già, ma tra sapere e vedere c'è sempre tanta differenza. mangiarono poco e quella notte lei tenne illuminato il suo bastone, nonostante il caldo. Non volevano stare al buio.
L'indomani iniziò una strana catena di eventi.



"Chi?"
"Non lo so: un altro me forse. Un piccolo bombarolo che vuole far saltare le mie fondamenta."



Per prima cosa, camminando, notarono una figura apparire e svanire al limite del loro campo visivo, poi la stessa apparire vicino i vicoli, la videro svoltare. Succedeva sempre quando, probabilmente, potevano vederla solo loro due. Lui ricordava bene i talenti della maga morta e ovviamente ne parlò con lei, che rispose di non sapere nulla e di non avere voglia di parlarne. Inconsciamente seguirono quelle tracce tutto il giorno, veniva loro naturale. Come stare in una bosco e trovare delle frecce disegnate sugli alberi, chi non le seguirebbe... Lui non aveva il coraggio di dirle che probabilmente inseguivano solo fantasmi della loro mente e lei non voleva credere che la sua amica fosse morta. E continuavano.

Arrivarono davanti un edificio imponente, senza insegna o nome. La porta era aperta... E ovviamente entrarono.

Dentro sentirono come di essere arrivati in un'altra dimensione o realtà (anche se lui avrebbe giurato di sentirsi così da quando il viaggio era iniziato). Nemmeno si girarono, tanto sapevano che la porta si sarebbe chiusa sola. Davanti a loro si ergeva una maestosa scalinata che andava in alto, ai lati vasi di fiori e colonne malmesse. La sala era tutta circolare (nonostante da fuori l'edificio paresse squadrato), ma a parte la scala non vi era nient'altro. E iniziarono a salirla sapendo che qualcuno li stava instradando. La scala a metà si divideva in due bracci, uno che andava a destra e l'altro a sinistra. Istintivamente Alesja andò in quello mancino, Otiv scelse l'altro. 

Si reincontrarono al piano di sopra e procedettero tenendosi per mano, il cristallo sul bastone di lei luccicava come un piccolo sole. Davanti a loro un pavimento a scacchiera che si allungava in avanti per parecchi metri. La maga mise un piede su una mattonella bianca, lui non si mosse; poi, muovendosi solo su quelle bianche, arrivò davanti ad una porta. Gli disse di camminare solo sulle nere, ma lui parve non capire. Provò a chiedere spiegazioni, ma lo sguardo di lei non ammetteva repliche, cominciò a battere i piedi per terra con impazienza, gonfiando le sue guance. Lui eseguì e presto si trovò vicino a lei, che gli indicò le scale da cui erano venuti.

"Guardi ma non osservi, tanto per cambiare." Disse. La rampa che lei aveva scelto aveva il corrimano bianco, viceversa il suo lo aveva nero. 
"Me ne ero accorto!" Mentì. Lei non rise.

Davanti a loro stendeva un corridoio lunghissimo e illuminato da candele messe ai lati. Lei sussurrò qualcosa indicando, di volta in volta, delle candele più o meno vicine. Ogni volta che ne indicava una, quella tremolava leggermente . Lui la guardò interrogativo, poi sfoderò la spada. La maga disse tre, una lacrima le scivolò dall'occhio. Due, prese il bastone con entrambe le mani. Lui impugnò la spada con due mani, si girò di fianco ponendo la spalla sinistra in avanti, la punta della lama sfiorava terra, inspirò. UNO. Alesja urlò, aggrottando le sopracciglia e sollevando il bastone davanti a lei con entrambe le mani.

"LUX FERO!" Dalla gemma del bastone scaturì un'onda luminosa che rischiarò il corridoio nella sua interezza, rivelando un'ombra nera davanti a lei, gli artigli metallici che grondavano veleno. Lui strinse gli occhi e non perse tempo: l'armatura a piastre cigolò mentre la spada tagliava letteralmente in due l'ombra, in un istante. Intestini e sangue caldo inondarono il pavimento. La figura ebbe solo il tempo di dire "la mia padrona vi..." prima di morire. Non ebbero nemmeno la voglia di controllare il viso per bene, sapevano chi era. Ma almeno questa volta era morta per davvero.
Lei si incupì, ma continuarono mano nella mano.

"Da chi stiamo andando?" Chiese lui.
"Ayivlis, una maga molto temuta. Ogni tanto si faceva vedere all'accademia, sceglieva qualche apprendista e scompariva."
"Cosa insegnava loro? E perchè sei sicura sia lei?"
"La risposta alle tue domande è la medesima: magia mentale. Illusioni, psicocinesi, viaggi astrali. Se si può pensare, lei lo sa fare. Ci andrai a nozze."
Lui deglutì a fatica, era di nuovo in balia della sua testa. Ma probabilmente non aveva mai smesso.

Una porta davanti a loro. C'era sempre un'altra porta, dopo. Lei spinse i battenti, si trovarono in una stanza spoglia. Al centro di essa un qualcosa simile ad un altare (o un tavolo) di marmo. Finestre chiuse e coperte dalle tende su ogni lato. Otiv, senza pensarci fece un passo, non vide Alesja sgranare gli occhi, nè si accorse di quando lei lo colpì con la spalla per spostarlo. Ma così facendo lei mise il piede nella trappola che probabilmente era destinata a lui. Lui si girò barcollando verso di lei, dopo aver sentito un rumore assordante. Lei era immobile in una posizione innaturale, quella che aveva assunto mettendo il piede sulla mattonella sbagliata, poteva muovere solo gli occhi, lui sfoderò la spada guardandosi intorno.

"Devo sbrigarmi o lei si libererà!" Disse una voce, Otiv non capì da dove. "Ecco quì la mia fuggiasca, quella che consideravo una figlia, in compagnia del suo cavaliere che, da quanto posso capire, è parecchio tormentato. O semplicemente un complessato in depressione. ora vedremo! Figliolo, ti consiglio di non muovere il tuo bel coltello o la tua amichetta farà una brutta fine!" 

Detto ciò si materializzò dietro di lei una figura anziana e rugosa, ma che lasciava intendere una bellezza cancellata dall'età. Dal vestito largo prese un oggetto, una striscia nera (sembrava cuoio) che terminava in una cinghia. Nell'esatta metà della cinghia vi era attaccata, da un lato, una palla di uno strano cristallo rossastro. Dall'altro lato la striscia presentava la lettera S incisa. Otiv capì al volo, era la S di Silentium. La vecchia inserì la pallina rossastra nella bocca di Alesja, pressando la striscia sulla sua faccia, quindi chiuse le cinghie dietro la sua testa strettamente. 

"Claustrum!" mormorò poco dopo, serrando la cinghia con la magia. Poi prese un coltello e lo puntò alla gola di Alesja, che, mugolando, aveva fatto cadere il bastone e teneva le mani guantate su quelle della vecchia, in un tentativo disperato di difesa.

"Momento spiegone, facciamola breve, ho voglia di farvi male. Parlo principalmente a te, burattino di ferro. Questo giocattolo serve all'accademia per punire le allieve che esagerano a usare la lingua, che sia per usare la magia o semplicemente perchè sono rumorose. L'ho chiuso con una formula magica, perciò credo tu sappia che l'unico modo per aprirlo è usare un'altra formula. Non sai nulla di magia, lo leggo nella tua bella testa caotica, e lei, come vedi, non può dire alcunchè. Perciò non fare cazzate e fammi divertire! Noi vecchi siamo capricciosi."

Otiv rilassò la posizione e aspettò altre parole, non sapendo cosa fare.

"Ora dico a te. signorinella. Ho una voglia matta di farti soffrire. La congrega mi ha offerto non sai quanti dindini per riportarti a casa, ma ho detto loro che lo avrei fatto gratis se mi permettevano di torturarti e ucciderti con le mie mani. E indovina un pò? Hanno acconsentito! Potrei farti a pezzi e mangiarti o infilarti nella farfallina ogni genere di schifezza dotata di denti, ma il destino mi ha aiutato portando quì questo bel bambolotto addolorato. perciò sai cosa voglio fare, vero?" Alesja sgranò gli occhi cercando di protestare, con scarsi risultati. "Tu ora te ne stai buona a guardare il tuo amorino diventare matto e probabilmente morire, poi toccherà a te." 

Poi la vecchia puntò il suo dito nodoso su Otiv dicendo "Iter Stellae!". Lui sentì un'improvvisa debolezza alle gambe. Cominciò ad accasciarsi a terra, partendo dalle ginocchia. Poco prima di chiudere gli occhi notò Alesja muovere gli occhi a destra e a sinistra, sgranandoli e mugolando. Con gli occhi gli indicò il suo bastone pulsante. Con quest'immagine stampata a fuoco nella mente, Otiv perse i sensi. La vecchia allontanò il coltello e si allontanò dalla giovane. Quest'ultima mise mano al gingillo, alle cinghie, ma sapeva che non poteva fare niente, perciò si avvicinò a Otiv, chinandosi e sfiorandolo col naso, il suo respiro caldo. Sentì gli occhi farsi lucidi. Poi Ayivlis la chiamò indicandole quella specie di altare.

Alesja si alzò senza aver nemmeno la forza di arrabbiarsi, asciugandosi gli occhi coi guanti, si avvicinò al tavolo sfiorandolo. Sopra di esso si era materializzato un paesaggio innevato in miniatura, pieno di omini, gallerie e altri portenti. Come conferma ai suoi pensieri, uno di quegli omini era Otiv. E si guardava intorno. "Goditelo nella tua impotenza..." Disse la vecchia con gli occhi spiritati di eccitazione. Occhi che esprimevano l'estasi dell'unico potere vero e possibile, quello di fare del male agli altri.



"Uccidilo!"
"Certo... Ma... Come si uccide un fantasma?"



Otiv si trovava in un sentiero scavato in mezzo a montagne altissime, nevicava ma non aveva freddo. Dal suo sentiero si dipanava un numero possibilmente indefinito e/o infinito di strade e corridoi angusti. E caverne. Ed era pieno di alberi. All'orizzonte davanti a lui vedeva un sole dal colore indefinito, pulsante e fermo, come la stella polare. Sfoderò la spada e iniziò a camminare completamente a caso, facendosi guidare solo dall'istinto, dato che non sapeva niente: nè dove si trovava, nè perchè. Ovviamente non sapeva cosa doveva fare. Era perso nei meandri di un labirinto. Non sapeva come ci era arrivato, era un neonato buttato a capofitto nella vita. Seguì una strada a caso, uccise dei mostri che gli vennero incontro: orchi che che si sputacchiavano i piedi.

Arrivò ad una caverna: dentro vi erano delle donne seminude legate in vari modi, la bocca chiusa da bavagli dalle forme più strane, i loro occhi espressivi. Lui sentì la virilità. Fu sul punto di entrare, forse in un universo alternativo o chissà dove sarebbe entrato, ma il suo sguardo andò a quel sole ed esso gli diede sicurezza. A destra la caverna, a sinistra il sole; la scelta era difficile. Facendosi quasi violenza, scelse il sole. Per un tempo indefinito uccise altri esseri: orecchie a punta, persone con gli occhi a mandorla, donne bellissime, uomini che conosceva, tutti svanivano come aria al tocco della sua spada. Il loro sangue era fatto di etere, In un'altra caverna vide un uomo.

Era lui. Si teneva la pancia e tirava pugni al muro, lo sfondo sfocato fatto di figure filiformi grigiastre, anche lui era grigio. Ma scelse il sole. Si ritrovò davanti un'altra caverna: un uomo, forse di nuovo lui, con un foglio di carta in mano, un attestato forse. La carriera che gli sarebbe spettata se fosse rimasto a casa, senza seguire lei. Una vita dettata da scelte diverse. Una vita forse allettante. Uccise altri esseri che nemmeno vide, aveva gli occhi stanchi e le gambe arrancavano. Nella prossima vide un'altra donna: il viso lo ricordava appena, era appena abbozzato. 

Si vedevano capelli e occhi, ma era intermittente, inafferrabile. Quel viso ultimamente faceva capolino nella sua mente, apparentemente a caso, e lui ogni volta lo scacciava. Ma quello tornava. E lo scacciava, si faceva più o meno forte, lo feriva. Lui ci combatteva ma ogni volta perdeva. Sapeva di doverlo ignorare ma non sapeva come, anche se ogni tanto riusciva. Come faceva con tutti gli spettri delle altre caverne. Sapeva cosa fare ma non sapeva come. La sua vita pendeva da una parte, puoi forse sconfiggere la gravità? Si chiedeva in quel mondo da sogno. Poi, altrove, vide una donna saggia parlargli, vide lui in guerra, a lavorare.

Vide un uomo con lo sguardo spento farfugliare qualcosa, poi un uomo poco più grande di lui vivere in una bella casa lontano da li. Vide vecchi amici, amiche, posti e storie. Anche quella sicuramente era solo una storia creata da qualcun altro, lo sapeva. Un sadico. Vide molte altre cose, rimaneva all'entrata delle caverne per poco o tanto tempo, non sapeva. E ogni volta sceglieva il sole. O almeno così credeva, dato che non sapeva niente. Tutta la vita non sapeva niente. Forse solo che seguire il sole era una cosa buona. Poi le caverne parvero finire o non le vedeva comunque più e arrivò al sole tanto vicino da quasi toccarlo. Era attaccato ad una cosa lunga, girandosi vide una donna coi capelli rossi, la bocca tappata da una striscia nera con una lettera sopra. Poi una vecchia.

Ma rimase sul sole. E capì tutto all'improvviso, o lo aveva sempre saputo. Il sole del bastone di Alesja, pulsante, mai spento per chissà quale ragione. E decise di averne abbastanza. Perciò si svegliò, o così credeva. Era tutto così ovattato. Alesja aveva gli occhi sgranati, probabilmente non credeva a quello che aveva visto. La vecchia peggio di lei, probabilmente nessuno era mai uscito da quel labirinto fatto di fantasmi. Lui sfoderò la spada e si avvicinò alla vecchia. Si dissero qualcosa, la vecchia urlò una parola: si aprì una serratura, cadde qualcosa a terra. Alesja si massaggiava la faccia e le guance, gli occhi lanciavano fuoco. Poi un urlo, sangue e una cosa rossa pulsante cadde a terra. La vecchia sanguinava dalla bocca mutilata.

"E' tua disse." Poi andò a vomitare poco più in là. Aveva vinto? Aveva perso? Che era successo? Non lo sapeva. Ma per qualche motivo guardando lei si sentiva bene. E voleva sentirsi sempre così bene. O almeno credeva. 
Non si girò mai, ma sapeva che la sua compagna si stava sfogando. Urla, ululati e odio pervasero la stanza, condirono il suo vomito di paura. Una paura strana, ma ora voleva smettere di pensare. E quasi ci riuscì.



"Non credo si possano uccidere. credo si possano ignorare. Ma non so farlo."
"Ti aiuterò, permettimi di farlo."
"Si... Scusa per tutto."
"Smettila di scusarti o te le suono."
"Credo di amarti."
"Lo so."



La battaglia non era finita, era rimandata in eterno. Ma lui voleva credere che lei lo avrebbe salvato, come ogni volta.

Dedicato a Lilith

lunedì 30 maggio 2016

Una Bella Luna

Una Bella Luna

Era una bella notte.
La vecchia decappottabile blu metallico sfrecciava a tutta velocità sulla strada dritta. La luna piena ovattava tutto, come un velo che rendeva tutto simile ad una fiaba classica. Tutt'intorno alla vettura il nulla, chilometri e chilometri di deserto, forse qualche cactus. Probabilmente qualche lupo stava ululando alla luna quella notte. Era tutto perfetto: il clima tiepido, la macchina aveva carburante da vendere, nessuno davanti o dietro l'auto. Sola nell'universo. E andava tutto benissimo. Il guidatore teneva la mano sinistra oltre lo sportello, godendosi il vento, i capelli corti svolazzanti. Teneva il volante solo con la destra e pareva ridere.

Aveva dei semplici jeans, una maglietta a maniche con l'immagine della morte, ai piedi anfibi non esageratamente grandi. Nonostante il posto, guidava una macchina europea, col cambio manuale. Non aveva mai avuto neanche la minima voglia di provare i giocattolini automatici americani. Sopra il cambio si vedevano le scritte luminose dell'apparecchio, in quel momento sintonizzato su Radio Odio, frequenza 66.6 Hz. Un piacevole pezzo death metal (messo a volume abbastanza alto) sembrava riempire tutti i vuoti. Il guidatore diede un'occhiata veloce al sedile del passeggero, vuoto ma evidentemente consumato. Il guidatore, il cui nome era Otivnaig, abbozzò un sorriso, pensando a chissà quale stramberia.

Altrove, Alesja si dimenava. Aveva le mani, ricoperte da guanti di pelle a mezzo dito, immobilizzate dietro la schiena da numerosi giri di nastro adesivo; stessa sorte per le gambe, dentro pantaloni attillati di pelle nera: il nastro girava intorno alle cosce, vicino alle ginocchia, e alle caviglie, sopra i pesanti anfibi da motociclista. Un ulteriore giro di nastro collegava caviglie e polsi, costringendola ad una posizione il cui nome aveva a che fare con gli ovini. Una striscia dello stesso nastro adesivo le tappava la bocca, da orecchio a orecchio. Era nastro con  colla molto forte, perciò una striscia era sufficiente allo scopo. Il "rapitore" era stato gentile a non riempirle la bocca con qualche panno.

E c'è da dire che si dimenava da parecchio, cercava di sconfiggere la colla che le sigillava le labbra o muovere gli arti, senza risultato. Non era la prima volta (anzi a lei sembrava tutto uno strano deja vù) che si trovava in quello stato, ma lei ogni volta non si rassegnava. E, mugolando, cercava di colpire le pareti strette del posto in cui si trovava, tanto angusto da essere simile ad una bara. Ad ogni movimento sentiva muoversi il piccolo anello al naso. Inoltre, nonostante il fatto che fosse buio pesto e l'aria fosse diventata pesante, era contenta di non essere stata anche bendata. Non sapeva dove si trovava, l'unica cosa che poteva aiutarla era la lieve musica che sentiva.

Aveva provato anche a sfregare la faccia contro il "pavimento", ma il bavaglio non si spostava di un millimetro, stessa cosa dicasi per i polsi, aveva solo rischiato di graffiarsi gli avambracci nudi. Poteva raggiungere con le mani la cintura e le sue tasche, ma il suo coltello le era stato portato via prima di essere stata immobilizzata. Cercando di trovare dei lati positivi, aveva deciso che poggiare di fianco su quella superficie era abbastanza comodo, anche se la posizione in sè non fosse il massimo per l'avventura che stava vivendo. Passava il tempo a cercare di maledire ad alta voce tutto quello che poteva, ma con ovvi e scarsi risultati.

Otiv diede un'occhiata all'ora, sulla radio, e decise che era ora. Non ce la faceva più, perciò si mise sulla destra e fermò la macchina sul ciglio della strada lasciando le luci accese. Era un rettilineo molto lungo e nessuno, ubriachi a parte, avrebbe rischiato di colpire la sua auto, unica fonte di luce delle vicinanze. Aprì lo sportello, lo richiuse e si mise a pisciare, fischiettando sotto la luna, poi, ridendo, si diresse verso il cofano della sua auto. Azionò il meccanismo di apertura e sollevò il grosso sportello: Alesja era ancora là, esattamente come l'aveva lasciata (a parte forse lo sguardo più incollerito e tagliente).

"Come va amore, ti sei divertita?" Disse prendendo una cosa da dietro le spalle.
"Mmphhf..." Rispose la donna, i suoi occhi feriti dalla luce improvvisa. Aveva i capelli rossi e ricci leggermente in disordine.
"Dimmi che mi ami e ti libero!"Squittì l'uomo. Dalle mani apparve un coltello, Alesja lo riconobbe: era il suo.
"Mmmph!" Disse cercando di girarsi per far vedere all'uomo il dito medio che faceva capolino dai fianchi. 

Otiv rise e si avvicinò alle gambe della donna. Con gesti misurati tagliò il nastro delle caviglie, poi quello delle cosce: il nastro volò via nel vento del deserto. Poi le prese le gambe aiutandola a uscire dal vano, pochi secondi dopo Alesja stava in piedi di fianco a lui, mugolandogli qualcosa. Otiv si beò della visione: la canottiera nera con un pentacolo, nella foga, si era spostata facendo vedere un pò della pancia; inoltre il giubbotto di pelle aperto, arrotolato ai gomiti, le era scivolato da una spalla, mostrando la sua bellissima pelle diafana. Lui le sistemò giubbotto e maglietta, poi la fece girare e armeggiò coi polsi, altro nastro volò via. Lei si girò verso di lui massaggiandosi le mani, gli tirò un calcio sugli stinchi, poi lo afferrò per le braccia, conducendolo verso uno sportello.

Ancora imbavagliata aprì la portiera e lo scaraventò sui sedili di dietro, lui stava ancora ridendo. Lei saltò sopra di lui e senza nemmeno chiudere lo sportello gli si mise sopra a cavalcioni, guardandolo malissimo, poi portò una mano guantata verso la bocca, sfilandosi il nastro lentamente: le labbra rosse carnose fecero venire un capogiro all'uomo, sul retro del bavaglio si vedeva ancora la loro forma di colore rosso; pure quello volò via nel vento. Lui notò i suoi canini. Poi lei armeggiò qualcosa in basso, visibilmente furente. Lui provò a dire qualcosa ma lei gli poggiò la mano sulla bocca, dopodichè si diedero da fare per un tempo indefinito. Solo la luna li osservava, ma si faceva gli affari suoi, occupata in qualcosa che era fuori dalla comprensione dei mortali.


Radio Odio trasmetteva uno sceneggiato radiofonico fantahorror e creava la giusta atmosfera per i due viandanti notturni. Non si guardavano nè parlavano, ma non ce ne era bisogno. Continuavano a correre lungo quell'infinita via, quasi una scalinata per un posto sito altrove, paradiso o inferno che sia. La luna era ben alta nel cielo e il paesaggio monotono non li aveva ancora sfibrati, anche se la palpebra cominciava a far sentire il suo peso. Mezz'ora dopo, o poco più, notarono un cartello con su scritto "MOTEL, 3 MILES" e decisero di aver avuto fortuna. Dieci minuti dopo videro l'insegna luminosa. Fuori era pieno di auto.

Lo sceneggiato stava per finire e Otiv spense il motore, ma lasciò la chiave nel quadro per sapere il finale. La donna non sembrava molto interessata ma nemmeno contrariata, continuava ad osservare la luna con aria sognante. Infine la storia ebbe termine e si diffuse nell'aria la voce della speaker che dava la buona notte a tutti, lui staccò la chiave. Scesero insieme dall'auto, misero insieme il tetto, chiusero gli sportelli ed entrarono mano nella mano nell'hotel, come due figure nere indefinite. Il tizio alla reception non fece domande, tutto preso com'era dal libro che stava leggendo. Ovviamente la loro stanza aveva il numero 66.

Un letto matrimoniale, tv, bagno con doccia, un tavolo, una finestra. Era tutto lì, non avevano bisogno d'altro. Alesja tirò fuori, da non si sa dove, una bottiglia contenente un denso liquido rosso e cominciò a bere avidamente mentre Otiv spostava il lenzuolo dal letto. Si stesero insieme tenendosi abbracciati e accesero la tv. Passarono il tempo a cambiare canali, insoddisfatti, poi decisero che avrebbero dormito fino a tarda mattinata. Poi l'oblio. Le lenzuola impregnate di sudore fu il premio per la loro giornata di foga. Sopra di loro la luna li osservava, ancora una volta, ma rimaneva impenetrabile.


"Amore, senti questo bel profumo di morte?"
"Si. Da quando siamo arrivati. E' una bella fortuna o sfortuna?"
"Io non ne ho idea. La cosa mi destabilizza un pò, ma non saprei proprio cosa fare."
"E' ovvio, agiamo. Fanculo il tuo stomaco."
"E' che non dovrebbe riguardarci, ma d'altronde se abbiamo iniziato questo viaggio, qualcosa dovremmo fare, no?"
"E' così, quindi smettila di brontolare o ti lascio quà."
Otiv sorrise a piena bocca.


Si diressero al bar subito dopo il tramonto. Musica black ambient permeava il locale, i due pensarono fosse Radio Odio, ancora una volta. Si diressero al bancone guardandosi in giro: il tavolo da biliardo era circondato da parecchie persone, tutti con cappelli da cowboy; almeno tre cameriere (tutte donne) servivano i tavoli avvolti da una cappa di fumo da sigaro; un uomo e una donna in cosplay (o qualcosa del genere, sembravano usciti dal medioevo) bevevano birra ad un tavolo, guardandosi intorno; altrove si giocava a poker o a dadi; un vecchio leggeva un libro voluminoso. Arrivati al bancone Otiv chiese una pinta di birra cruda e un bloody mary per la sua donna, vennero serviti subito. Portarono i bicchieri alle labbra.

Poco dopo il boccale di birra di Otiv era vuoto. Guardò Alesja e disse qualcosa. Lei poco dopo rispose con tono di voce basso, quindi si scambiarono un bacio leggero sulle labbra. Lei si alzò e uscì dal bar, dirigendosi chissà dove, mentre Otiv tirò fuori il portafoglio tirando fuori una banconota, la porse al barista e attese il resto. Perchè solo nei film non si prendeva il resto. Poi si alzò e uscì pure lui, Alesja non si vedeva già più, ma la luna era riapparsa. 
Il barista intanto si stava accingendo a lavare i bicchieri, quando notò una cosa e subito dopo fece segno ad uno degli avventori: sul bicchiere della donna si vedevano le tracce di rossetto, ma il liquido non era stato toccato


Alesja era uscita dal bar dirigendosi alla reception, aveva preso le chiavi della stanza e aveva fatto finta di prendere l'ascensore, in realtà era scesa per le scale. Voleva dare un'occhiata al piano di sotto. Dopo due corte rampe di scale notò un'unica porta. Facile una volta tanto, pensò. Saggiò silenziosamente la maniglia: era aperta. la aprì e si diresse nella stanza buia. La porta si richiuse dietro di lei con un tonfo. Alesja si girò notando che non c'era nessuna maniglia da quel lato. Dovevo immaginarlo, si disse, ma ormai era tardi. Come Otiv, era abbigliata allo stesso modo della sera che aveva passato nel bagagliaio, il coltello al suo posto. Guardandosi intorno andò in avanti, verso le tenebre.

Otiv invece era salito per le scale. Avevano deciso di dividersi per osservare bene tutto, Otiv sopra e lei sotto. Lui doveva controllare tre o quattro piani, parecchi pensava lui. Lei al massimo due, ma si sa che gli scantinati sono maleducati. Il primo piano era quello della sua stanza e l'avevano controllato per bene tutti e due. Salì al secondo, poi terzo, nulla di nulla. Infine il quarto, l'ultimo: questo aveva una porta in più rispetto agli altri. Otiv provò ad aprirla ma era chiusa a chiave, allora si guardò intorno e prese spazio, poi la sfondò con un calcio. L'ennesima stanza buia, ma si vedeva una porta, questa volta aperta. Era un ascensore e aveva un solo tasto. Otiv credette di aver visto abbastanza, così chiuse la porta e premette il pulsante. L'ascensore scese nelle tenebre.

Alesja stava camminando per un corridoio molto lungo. Camminava furtiva dentro il nero più totale, pronta a reagire al minimo rumore. Il corridoio era pieno di mobili distrutti o semplicemente molto vecchi, pieni di polvere. All'improvviso sentì un rumore provenire dal fondo e una lama di luce fendere il buio, istintivamente si nascose dietro un mobile. Dalla sua posizione riusciva però a vedere che da quel rettangolo di luce stava venendo fuori una donna. Questa donna si mosse e si accese la luce nella stanza. Merda, pensò Alesja, anche se ben nascosta. La donna aveva uno di quei completi in latex stile dominatrice, attaccati alla vita aveva ancora un frustino e delle manette. Camminava sola, verso l'apertura da cui Alesja era venuta. E lei capì.

Il viaggio in ascensore durò davvero poco e questo permise ad Otiv di capire che si trovava ad un piano interrato. La porta si aprì cigolando su un'ennesima stanza vuota e buia, ma più piccola della precedente. Su un muro vi era un cancello in ferro battuto, davanti al quale stava qualcosa di simile ad un sipario rosso bordeaux. Otiv aprì il cancello (che non emise un solo cigolio) e scostò il panno. Si trovò quindi in una stanza grande almeno quanto una qualsiasi aula magna universitaria, gremita di persone, piena di qualunque tipo di essere. Vide nani, elfi, orchi e anche demone orientale, tutti vestiti nelle più maniere imposte dalla moda di quei giorni. Nessuno si accorse di lui per il momento, ma lui notò il palco. E lui capì.

La mano sinistra guantata di Alesja si chiuse in un lampo intorno alla bocca della donna, appena la superò non notandola. Con l'altra l'afferro per il busto trascinandola verso il suo nascondiglio. La donna non capì nulla e nemmeno tentò di protestare, gli occhi sgranati per la paura. Alesja le disse qualcosa riguardo al non gridare e al dare delle risposte, la donna fece si con la testa. Le liberò la bocca e lei parlò lentamente e con un tono di voce basso. Poi Alesja si mise a pensare, decise di nutrirsi un pò e affondò i canini appuntiti nella gola della donna, che aveva capito tutto dall'inizio. L'unico problema era che, con la luce aperta, non si era accorta che la porta di prima si era riaperta facendo uscire altri due esseri, due goblin armati fino ai denti. Fece appena in tempo a prosciugarla che si trovò un coltello seghettato davanti agli occhi.

Sul palco stava iniziando il rito. Sei umani, tre uomini e tre donne, strafatti e barcollanti vennero fatti inginocchiare sulle sei postazioni contrassegnate da un pentacolo, disegnato sulla postazione sopraelevata. Un sacerdote incappucciato salmodiava parole incomprensibili mentre da dietro le quinte appariva un uomo con una lunga coda di cavallo. Aveva una lunga spada ricurva in mano, il boia pensò Otiv. Li avrebbe decapitati e il loro sangue sarebbe scivolato sulle scanalature scavate sul palco. Seguendo quella pista, il sangue sarebbe entrato in un calderone posto sotto il pulpito. Lo avrebbero fatto bollire evocando chissà cosa. O magari faranno di peggio, chi cazzo mi ha fatto finire quì? pensò. Ma capì di aver sbagliato quando si trovò un cucciolo di troll arrabbiato davanti agli occhi.

I due goblin la fecero alzare. Uno le teneva il coltello vicino alla gola, l'altro la prese per gli avambracci, incrociandoglieli dietro la schiena, Alesja ebbe un brivido sentendo sulla propria pelle quella mano gelida. Poco dopo sentì il clack delle manette, poi lo stesso goblin prese dalla cintura un bavaglio a pallina di colore rosa. Apre Wampyr, disse (o qualcosa del genere). Lei capì: aprì la bocca da cui sporgevano i canini e accettò la piccola sfera. Infine chiusero la cinghia (molto strettamente, lei sussultò) dietro la sua testa, tra i suoi capelli color del fuoco. Infine le misero una benda, di quelle che si usano per dormire in aereo. L'altro essere posò il coltello e la prese dai gomiti, l'altro lo imitò. Insieme la fecero camminare. Tanto per cambiare, pensò mentre sentiva dolore alla mandibola e alle guance. Dopo aver camminato qualche minuto fissarono le sue manette ad una sbarra e tolsero la benda. Lei mugolò qualcosa dalla sorpresa.

Otiv alzò le braccia e fece un sorriso sornione, da idiota. Si beccò uno, due, tre pugni sulle costole, poi venne raccolto e trascinato in una stanza con delle sbarre, una prigione probabilmente. Si aspettavano bontemponi, pensò. Il pavimento era pieno di teschi e ossa, umane e non, segno che non era la prima volta che succedeva tutto questo. Lo buttarono per terra e lui fece finta di svenire, chiusero la porta. Lui rise vedendo la finestra che dava all'esterno, la luna si vedeva perfettamente, questo lo calmò. Dopo una decina di minuti sentì altri passi e si sedette poggiando la schiena al muro. Vide arrivare due goblin, stavano scortando una donna bendata, con la bocca chiusa da una pallina, le mani dietro la schiena. Lui la riconobbe subito, nonostante la sorpresa.

Si trovarono insieme in cella, lui l'abbracciò e le disse di stare tranquilla, il momento stava arrivando. Le disse ridendo che quella scena l'aveva già vista chissà dove, chissà quando. Lei mugolò ogni volta e sbavò, cercando di liberarsi. Era ben rifocillata di sangue, ma non poteva spezzare quelle manette d'argento. Lui capì e le disse di aspettare, Poco dopo iniziò la trasformazione: crebbe il pelo, si allungò il muso, i vestiti si fecero a pezzi, la schiena si incurvò ancora. Lei, quasi fosse la prima volta, mugolò più forte, preda della paura, ma lui aveva mantenuto il suo sguardo. Lei si girò e lui spaccò le manette con un'artigliata, la sua pelle da lupo bruciò per un attimo e ululò di dolore. Poi si schiantò sulle sbarre, impotente. Lei lo accarezzò sul muso e rise, o quantomeno ci provò a causa del bavaglio, poi prese il suo coltello dalla cintura (i goblin non sono mai stati famosi per l'intelligenza). 

Con la punta fece saltare in pochissimo tempo la serratura della prigione. Il lupo si girò verso di lei, il membro eretto. Lei si tolse il bavaglio sporco di saliva e lo baciò, poi lui scomparve. Lei rimase lì, in attesa che tutto finisse.

Ad ogni urlo o ululato che sentiva le veniva da sghignazzare.

Dedicato a Lilith

giovedì 7 aprile 2016

Una Storia sul Morire

Una Storia sul Morire

Sono così.

Una ragazza ansia e sapone.”

    - Anonimo





Il vento batteva alle finestre con insistenza, ma nessuno voleva farlo entrare. Lui se ne stava seduto al tavolo, vicino al fuoco, a sorseggiare la sua seconda pinta. I suoi pensieri erano ricolmi di ogni tipo di dolore e noia, malessere e deliri di autodistruzione, anche se bere lo calmava. E cominciava anche a capirci poco di quello che aveva intorno. Stava seduto ad un tavolo bello grande con una decina di sgabelli messi tutt'intorno, ma lui era l'unico a quel tavolo. E aspettava; anche se era sicurissimo che nessuno si sarebbe fatto vedere... Si, insomma, chi l'avrebbe fatto? Probabilmente, in un'altra vita, nemmeno lui. Faceva un freddo tremendo nonostante il fuoco, quini provò a stringersi il mantello ancora più stretto intorno al corpo. Nel farlo colpì involontariamente il suo scudo appoggiato ad una gamba del tavolo, che cadde rovinosamente a terra facendo un gran baccano. Il vociare si interruppe per una frazione di secondo, lui si rese conto di non essere solo dopotutto e fece un sorriso da ebete. Poi notò i due avventori appena entrati: si dirigevano verso il suo tavolo. E intanto tutti si erano dimenticati di lui, era di nuovo solo.

Sei tu che hai scritto l'annuncio?” Chiese il più corpulento. La definizione di bestione gli calzava a pennello: spalle larghe, muscoli rifiniti, toccava quasi il soffitto con la testa. Aveva lunghi capelli rossi sporchi e unti. Occhi azzurri e naso storto erano cose che saltavano subito all'occhio. Una lunga barba rossa e incolta (e forse pure un po' lurida) gli contornava il viso. Aveva i denti storti. In mano aveva uno spadone che aveva visto giorni migliori, piccole asce alla cintura. Lui notò che era quasi completamente nudo e che aveva il corpo cosparso di tatuaggi monocromatici. Il suo alito puzzava di fogna. Si sedette ruttando e chiamò l'oste urlando a squarciagola. Sembrava proprio a suo agio in quell'ambiente. Pareva anche abbastanza felice. Si notavano cicatrici nuove ogni volta che quel tizio si muoveva. Ordinò anche per il suo amico, che non aveva spiccicato parola.

L'altro aveva la carnagione olivastra (che faceva contrasto con il colore pallido dell'altro). Era tutto ricoperto di nero e dalle forme sotto al mantello (nero anch'esso, esattamente come quello del suo amico) si capiva che era armato fino ai denti. Scoprendo le falde si notava pure un'armatura di foggia orientale che lo ricopriva interamente, nera come la notte. Aveva la mascella larga e una barba rada (ma, ancora una volta, scurissima) ma curata. Gli mancava un occhio, ma l'altro si muoveva in continuazione osservando il posto e la gente. Non aveva mai cambiato espressione da quando era arrivato: torva e storta, come di quelli che cercano rogne. I capelli erano acconciati secondo la foggia degli orientali, con un codino corto sulla sommità del capo. Testa a parte, a differenza dell'altro, non si vedeva pelle. Una sciarpa corvina gli cingeva il collo, con un lembo che gli finiva dietro le spalle. Digrignava i denti.

Beh ci vuoi rispondere?” Continuò il tipo in nero.

Si, sono io.” Dissi con la testa che mi girava, era ora delle cose serie.

E...?” Era il bestione.

Niente, cercavo gente e siete venuti voi due, che c'è da dire?”

Spiegaci tutto dall'inizio. Abbiamo letto l'annuncio, ma vogliamo sentirlo da te.”

Beh c'era scritto: cercasi gente a cui piace menare le mani, possibilmente soldati e/o mercenari. Probabilmente perderemo la vita ma venderemo cara la pellaccia. Per dettagli andare in taverna e chiedere di Joy. Non avevo scritto che avevo soldi solo per tre o quattro persone, ma visto che domani me ne vado e che siete venuti solo voi due, ho idea che il gruppo s'è formato.”

Non ti sfugge qualcosa? Tipo dove, quando, cosa, compenso ecc. ecc.” Il nero.

Fra una settimane, lassù su quelle montagne si raduna un circolo di cultisti malati. Di quelli che stanno tanto sul cazzo a quelli dell'Impero. C'è una grossa taglia sul capo di quelli e poi non li sopporto proprio, vorrei ucciderli tutti.”

Ti hanno fatto qualcosa? E' vendetta? Sembri solo annoiato.” Disse il corpulento mentre si rimpinzava di noccioline comparse in chissà quale modo.

E lo sono. E' molto tempo che non so dove sbattere la testa, ho tante cose da fare e nessuna voglia di farle. Credo di cercare un pretesto per morire, magari non inutilmente. E poi a voi che interessa, vi pago.”

Sembra divertente, un lavoro senza uscita. Tu hai solo bisogno di uno scopo per vivere e cerchi di morire... Sei proprio un simpaticone, ti pago il prossimo giro. Ti seppellirò gratis quando servirà!” E ruttò sonoramente pulendosi i baffi rossastri.

Joy ebbe un brivido a sentir parlare di tombe e morte, ma se l'era cercata. Spostò lo sguardo sull'altro, aveva finito tre pinta con una velocità tremenda e stava assaltando la quarta. E sembrava tremendamente lucido.

Hai intenzione di combattere quei matti col tuo farsetto?” Disse a mezza bocca.

No, ho un'armatura a piastre completa, spada e scudo. Facevo parte dell'esercito imperiale, poi ho mollato. Non ho voglia di parlarne. Comunque io sono Joy e voi lo sapete. Mi pare di aver capito che accettate l'incarico. Posso avere i vostri nomi?”

Otiv!” Urlò il bestione.

Chiamami... mmm... Naig.” Mugolò l'altro. Chissà come erano finiti insieme, si disse Joy. Non potevano essere più diversi, ma si completavano e, nonostante l'aria torva di Naig, sembravano molto affiatati. Si diedero appuntamento l'indomani all'alba per partire, dato che per arrivare al posto ci sarebbero voluti cinque o sei giorni, più eventuali ritardi. Joy andò a letto e si addormentò subito, sognò un gigantesco serpente che si mordeva la coda e, nonostante avesse il cavo orale occupato, lo mandava al diavolo in tanti modi diversi. Si svegliò più stanco di prima e arrabbiato, ma si sistemò l'armatura e scese le scale. I due erano fuori dalla locanda, che sistemavano le armi. Otiv affilava una delle sue asce, non sembrava avere altro addosso. Naig stava osservando quello che sembrava essere il suo strumento di morte principale: una lunga lama ricurva. Sembrava un'arma a due mani; poi aveva alla cintura una lama uguale (nel fodero) ma più piccola. C'era una lancia conficcata a terra vicino a lui, ovviamente nera.

Partirono senza una parola, stringendosi nel mantello. Attraversarono paesaggi innevati, passarono in mezzo ad un paio di cimiteri, dormirono in foreste e cacciarono per mangiare. Otiv si lamentava spesso della mancanza di birra, ma c'era ben poco da discutere. E continuavano, con Naig che usava la sua lancia come un bastone da pellegrino; Joy chiedeva storie sul loro passato ma non riceveva risposte. Sapeva di essere molto più giovane dei due (che molto probabilmente avevano la stessa età), ma credeva già di ammirarli. Si accorse pure di non aver ancora parlato di soldi, ma nessuno se ne dava peso. E' tutto così strano, si disse. Ma si sentiva quasi felice, era una sensazione niente male. E così arrivarono a destinazione, proprio sotto la montagna sul cui pianoro doveva accadere tutto. E si accamparono proprio li. Parlarono di come farsi strada in mezzo a quei matti, delle strategie da adottare, ma l'indomani nessuno si ricordava niente, persi com'erano nell'apatia. C'era qualcosa di strano nell'aria sottile. Come una sensazione di essere in un sogno. Ma un sogno di chi?

E cominciarono a scalare il pendio, con le armi pronte. Quasi subito sentirono i primi vaneggiamenti, cori, sentirono crepitare fuochi. Joy si chiedeva come faceva a stare lì così presto, sentiva come se l'incontro con loro in taverna fosse avvenuto poche ore prima. Il tempo sembrava scorrere seguendo regole ancora più misteriose del solito. Apparve un sentiero. Le prime cose che videro furono resti di animali sanguinolenti, ossa, pozze di liquidi di vario tipo e tanto, tanto sangue. E intanto le voci si facevano più forti e insistenti. Joy imbracciò lo scudo e sfoderò la spada, Otiv tirò fuori lo spadone ridendo e Naig impugnò la lancia con entrambe le mani. Si avvicinarono ad un grande spiazzo sul cui centro era stato fissato un idolo mostruoso gigantesco. C'era pieno di gente che ballava e si spintonava, proprio sotto l'idolo. Su una posizione sopraelevata, quattro persone suonavano vari strumenti mentre un quinto si sgolava. Sacerdoti officiavano riti e Joy non ci capiva niente, stordito com'era dal baccano.

Alla sua sinistra era in corso un orgia, alla destra una gabbia piena di ragazze legate e imbavagliate, probabilmente i sacrifici che facevano tanto arrabbiare le autorità. Alcune erano svenute, altre si dibattevano, altre ancora piangevano. Joy era come in trance e l'unica cosa che poté riscuoterlo fu il vedere una ragazza dai capelli rossi liberarsi e urlare qualcosa alla sua direzione. Lui parve non capire e non si accorse nemmeno che i suoi due compagni si erano gettati nella mischia urlando il nome di qualche divinità. Senza pensarci spaccò il lucchetto della gabbia con la spada. Lei gli disse qualcosa (che lui non capì) poi si dedicò a liberare qualche amica. Joy si riscosse vedendo i suoi amici tramutare quella festa in un bagno di sangue. Naig aveva impalato il gran sacerdote con la sua lancia e affettava gente con le sue spade, mentre Otiv non aveva più le asce alla cintura. Il suo spadone però aveva la lama così rossa che Joy sentì il vomito salire. Poi notò la ragazza scomparire dietro l'angolo, tutto in pochi attimi. E si sentì perduto.

Ma nessuno parve notarlo. Vomitò la cena della sera prima e si riscosse, pronto ad unirsi ai due amici che, però, aveva perso di vista. Ed ebbe paura, una paura tremenda. Non voleva buttarsi in quel bagno di corpi e violenza da solo. Sentiva una sensazione terrificante allo stomaco, come di un impedimento fisico alla vita. Una sensazione atavica di malessere e, per un attimo, bramò il suicidio. E i suoi piedi si mossero per lui, andando nella stessa direzione della ragazza. La vide che si dimenava dalle braccia di un cultista con in testa una maschera di scimmia. Joy lo trafisse senza pensare e guardò la ragazza sporca del sangue della scimmia. Anche lei era scioccata. Si guardarono e Joy sentì il suo stomaco morire. Aveva la tachicardia. Lei gli si lanciò addosso piangendo. Lui vide un altro cultista, una donna completamente nuda con la faccia ricoperta di tatuaggi: perdeva fludi dall'inguine e sembrava pazza per la morte di scimmia. Joy la colpì con lo scudo prima di trafiggere anche lei. E di nuovo si sentiva spaesato, come se qualcun altro lo controllasse.

E scapparono insieme. Nessuno parlò, se la diedero semplicemente a gambe. Incontrarono altra gente ma ne uscirono vivi. Joy, però, rimediò una brutta ferita al fianco. E la sensazione di spaesamento continuava.

Come ti chiami? Io sono Joy.”

Io sono Lily, ma non ti fare strane idee, ho un sacco di amanti!” Joy notò che aveva la frangetta ed era bassina.

Ah scusa.” Disse Joy, capendoci sempre meno. Si sentiva inadatto alla vita. Ma nonostante quelle chiacchiere lei gli stava appiccicato e ogni tanto lo accarezzava.

Scusa un corno, abbracciami!”

Ma avevi detto che...”

Fuggiamo insieme a casa. La tua magari, la mia non va bene.” Sembrava improvvisamente tranquillissima.

Joy aveva dimenticato i suoi due compari e nemmeno si ricordava dov'era casa sua, ma si sentiva improvvisamente bene. Non si era nemmeno accorto di aver ucciso finora solo gente disarmata. Voleva solo capire qualcosa, ma niente è così facile. E lei intanto gli medicava il fianco come poteva.

Tempo dopo si ritrovò a viaggiare con lei in una foresta, aveva dimenticato cosa fosse successo, aveva dimenticato tutto. Semplicemente avanzava con Lily. E cercava di non morire. Poi ebbe una visione: vide se stesso perdere i sensi (forse per la ferita), Lily piangere. Poco dopo vide se stesso come se fosse fuori dal suo corpo: si vide a terra con la testa poggiata sulla ragazza, in un sonno profondo. E vide un'ombra nera e informe avvicinarsi.

Dammelo.” Disse.

Mai, è mio! Torna più in là!” Rispose Lily.

E perché mai? Non vedi che ormai è morto? Respira appena, non sa dove si trova e nemmeno si è accorto di TE!”

Non è vero, lui sa! Non me l'ha dimostrato, ma lo farà in seguito! Mi fido di lui.” Rispondeva trattenendo le lacrime

Ah si eh... Ti vedo proprio convinta. Vorrei vederti quando non si fiderà di te o si farà prendere dalle sue stupide fisse, quando ti tratterà male solo per dimenticare il suo dolore! Tutte le sue paure, LE TUE, i disagi, i silenzi, l'ODIO, l'idiozia. Sopporterai tutto questo? Perchè? Liberatene ora!”

No, accetterò tutto! Lui accetterà tutto. L'ho appena conosciuto ma ho già capito... E mi basta! Tu vai via, qui non c'è nulla per te!” E lo strinse ancora più forte.

Niente è eterno. Finirà! Come tutto! Non è giusto tenere in vita morti viventi!”

L'ombra ululò e provò, con le sue mani scheletriche, a ghermire la sua preda, ma venne fermato dallo sguardo di lei. Grondava di lacrime e sudore, ma voleva apparire sicura di se stessa.

Sei una stupida, dovresti ringraziarmi e mi mandi via, ma VEDRAI! Io sono paziente... Mi darai ragione e io gioirò del tuo dolore.” Scomparve. Lei avvolse la testa di lui in un abbraccio.



Poi Joy si svegliò, era una bella giornata, anche se il freddo fu la prima cosa che sentì. Lily si era appisolata su di lui, aveva le guance rigate di lacrime e gli aveva stretto il collo così tanto da lasciare dei piccoli segni. Erano parecchio lontani dalla montagna, ora lo sapeva. Forse addirittura capiva qualcosa. Il combattimento coi demoni deve sfiancare parecchio, pensò. Anche se pareva essere stato solo un sogno. La sollevò sulle sue spalle e iniziò a camminare scegliendo una direzione a caso. Probabilmente in due le cose sarebbero migliorate. Lei dormiva della grossa, poteva sentire il suo respiro sulla spalla. E si incamminò. Da nessuna parte in particolare.

Senza nemmeno notare due figure, una corpulenta e una più bassina, ricoperte di sangue che lo osservavano dall'alto.



Dedicato a Lilith