martedì 26 giugno 2012

Sangue sui Tasti

Sangue sui Tasti

Breve storia di un sognatore



Sputare sangue è come mangiare un pezzo d'acciaio. Il sapore è lo stesso.

Lo si prova da giovani. E' normale leccarsi le ferite: cadi per terra, ti sbucci una mano e che fai? Cominci a leccare la piccola ferita, come se potesse davvero fare qualcosa. Io lo provo tuttora e ormai, anche se capisco bene che ha un buon sapore, non mi dice più nulla. E' sempre così, l'abitudine massacra sempre ogni cosa. E dire che l'essere umano basa la propria vita su di essa...

Ora per esempio. Il montante che ho ricevuto sul mento mi ha spento le luci per un attimo ma sono riuscito a non finire KO. Dio come vorrei sputargli addosso tutto, magari per accecarlo. Ci provo. Lo manco. Barcollo. Mi riprendo.

Accorcio la distanza con un circolare diretto al fianco, lui si difende bene bloccandomi la gamba. Poi mi spazza l'altra, sono a terra. Si getta su di me come un lupo famelico, cerca di mettermi in leva il braccio ma mi libero. Riesco a rotolare sul fianco e a rialzarmi, seguito subito dall'avversario. Lo aspetto. L'altro non si fa attendere: abbozza un frontale, una finta di lato e poi cerca di entrare con un diretto seguito da un gancio. L'ultimo pugno è talmente forte che, parandolo a mano aperta, mi apre un graffio sulla mano nuda, comincio a sanguinare. Stringo il pugno per non farlo vedere. Ma lui se ne accorge.

Vengo spinto indietro e lui continua ad incalzarmi. Sembra aver finito di provare a buttarmi al suolo. Altra scarica di pugni, paro anche con la mano sanguinante, la ferita si allarga e mi scappa un gemito. Altra scarica di colpi, non riesco a reagire. Poi arriva, puntuale e rapido. Una martellata sulla tempia che non avevo visto. E tutto diventa buio.



**



Quando mi sveglio la prima cosa che faccio è imprecare tra i denti, poi mi alzo e mi guardo intorno. Non ho bisogno di chiedere nulla. Mi hanno anche lasciato solo. Sul tavolo vedo un biglietto in cui c'è scritto solo un numero. Un gigantesco “1”. Mi cambio e mi ficco il foglio in tasca.

Vado a casa. Anzi il monolocale, apro il cassetto in alto. Ci sono altri fogli con tanti numeri grandi scritti sopra. Sono in ordine decrescente e partono da un cinque. Il solo guardarle mi deprime. Ho una gran voglia di piangere, ma non lo faccio perchè non serve a nulla. Vado invece al piano.

Soffio sui tasti per togliere qualche granello di polvere. Appoggio le dita, poi vedo la fasciatura sulla mano. Incomincio la Toccata ma sento una fitta.

Non me ne importa nulla. Continuo a suonare e intanto la ferita si riapre, il sangue filtra la garza. Il sangue finisce su un do. Ma neanche questo mi ferma. Gemendo in silenzio continuo, finisco il pezzo. Poi prendo un panno e pulisco il piano. Ma il sangue è incrostato, ci metto un po' di tempo. E' ora. Stasera devo andare al locale.



Neanche mi preparo. Non ne ho voglia. Io vado lì per suonare, non per farmi vedere. Una semplice maglietta e dei pantaloni sporchi. D'altronde come posso vestirmi bene con quello schifo che mi pagano. Dio, come li odio. Almeno quanto quel coglione che conoscevo ai tempi delle medie. Quello spocchioso brufolo bigotto. Se non l'ho gonfiato solo Dio sa perchè.

Quando incrocio il primo nella sala quasi mi viene voglia di strangolarlo. Non lo saluto, quasi non si accorge di me. Mi avvicino al piano, o meglio a quello schifo di pianola scassata. Almeno un terzo dei tasti non funzionano. Mi siedo e comincio a picchiare sui tasti, con forza.

Una scala blues qua e là, un paio di virtuosismi del cazzo e riesco ad avere il mio stipendio. Rido mentre prendo le banconote. Non avrete quello che davvero so fare. Non con questo schifo di strumento e con questa paga di merda. Preferisco fare il barbone. Esco.

Una volta a casa combatto con il mio piano. Ci scambiamo prima colpi leggeri, poi ci andiamo giù pesante. Le urla sovrastano tutto e mi sento in pace con me stesso. Ora posso andare a nanna. Domani dovrò suonare un altro avversario. O magari lui suonerà me. E' solo dialettica.



Eravamo un duetto perfetto. Lui suonava e io cantavo. Questa volta me ne avevano messo uno troppo grosso. Come tutte le altre volte... Ma sono contento nonostante tutto. Combattere quando è inutile è molto più divertente, perchè non hai nulla da perdere (ormai...). E' quella consapevolezza che ti viene quando sai che hai troppo problemi per preoccuparti seriamente di uno solo di essi. Poi scivolo di nuovo nel buio.

Al mio risveglio trovo il solito fottuto biglietto, senza numeri stavolta. Solo una scritta.

Domani

Decido per un'ultima sera. Anche se sono pieno di cerotti, fasciature, garze, quasi senza un occhio. Vado dal capo e gli dico che suonerò gratis. Lui sgrana gli occhi e mi offre un boccale di birra. L'ultimo sorso glielo sputo in faccia. Queste sono le soddisfazioni della vita. Mi metto a suonare, l'hanno aggiustato? Giusto in tempo. Qualcosa di introduttivo, poi entro nel vivo con la composizione che ho finito ultimamente. C'ho messo più di tre anni per comporla, c'ho messo tutto me stesso e anche qualcos'altro. Perciò è lunghissima e tortuosa. Ci vorrà del tempo per finirla... Ma tanto ho una serata...

E' bellissima. Me lo dico solo. La mia unica soddisfazione in questa vita pallosa. Ma almeno prima di crepare potrò dire di essere stato felice. Per una sola serata. Ma è vero quel che si dice. E' meglio estinguersi in una vampata che spegnersi lentamente. Verso la fine, per la tensione, un po' di cerotti si staccano, le ferite si riaprono. Comincio a macchiare di sangue il piano. L'unghia rotta (quando mi si è rotta?) mi fa un male cane, ma non è una scusa per interrompere. La mia faccia dipinge il bianco dei tasti mentre finisco. Sono tutto sanguinante e respiro a fatica. Sono stanco. Mi alzo. Tutti mi guardano estasiati: non so se sono stupiti per la melodia o per la mia faccia. Sicuramente entrambe le cose. Un essere informe mi chiede uno spartito. Comincia a prendere una sega elettrica. Dico indicando la mia testa. Poi me ne vado barcollando.

Fuori c'è la sua macchina ad aspettarmi. Vengo gentilmente invitato ad entrare. Mi siedo di fianco ad una signora bionda sui trent'anni che sembrava uscita da una festa organizzata da Bill Gates. Anche molto bella. Cerca di parlarmi con quei suoi bellissimi occhi verdi, dato che le sue labbra erano sigillate da un pezzo di nastro adesivo argentato. Buona sera. La saluto. Lei non è d'accordo. Al solito posto? Chiedo al tizio accanto all'autista. Lui annuisce silenziosamente. Il viaggio dura pochi minuti, tutto intervallato dalla giovane donna che borbottava qualcosa. Arrivati davanti ad una rupe ci fa scendere. Lo chiamavano il Corno. C'avevo fatto qualche lavoretto anche io.

Mi sembra giusto crepare dove ho lavorato per molto tempo. Mi dicono di andare vicino al precipizio. A spintoni mettono vicino a me anche la donna, ormai in lacrime. Poi lui, un nippoamericano di trent'anni con cui ho lavorato da sempre, prende il suo M7.

Non mi è andata poi così male. Morire accanto ad una bella donna. Penso. Mentre aspetto le mie dita si muovono in aria e la musica scoppia nella mia testa.

1 commento:

  1. Beh, c'è da dire che, in quanto a deliri, anche questa non è da meno!
    Mi è piaciuta tanto quanto l'altra, se non di più. Da questo periodo, vedo un netto miglioramento anche dal punto di vista stilistico :)

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